L’etica della fama giudiziaria Riflessioni del giurista Giovanni Cardona sul moderno Leviatano giudiziario
Oggigiorno, il culto servile del potere giudiziario è caratterizzato da un insieme eterogeneo di concause, ibridamente interagenti e cronicizzanti una patologia che in un’epoca di nichilismo giuridico e giudiziario, rende il fondamento del diritto ancorato alla mera volontà dell’individuo, senza alcun riferimento a presunti valori o verità teologiche, metastoriche o metafisiche.
Il primo supporto illogico e diretto di una immeritata sopravvalutazione dell’”etica della fama”, è dato dal contributo persistente del genus dei “quaresimalisti prezzolati” dalle testate quotidiane e dai patetici cronisti giudiziari, piccoli chierici avidi di incanaglirsi, oltreché disposti a rastrellare benignità e briciole (rectius segreti istruttori), che il grande Moloch della giustizia lascia precipitare dalla sua ingorda mensa.
Aggiungasi a questo nefasto quadro policromo, il becero regno astratto e orribilmente monocromatico del conformismo intellettuale, che in epoche passate costituì l’effetto più devastante e deplorevole della Santa Inquisizione, costruita sul consenso surrettizio, sul prestigio e sul terrore imposto dalla esemplarità dei supplizi.
Anche negli odierni scranni giudiziari, sovente si assiste alla rappresentazione del cosiddetto “pesismo giudiziario”, ove sulla stadera giudiziaria si pongono criteri interpretativi dissimili a casi identici o analoghi, secondo le strategie o le convenienze tattiche, basate su una forma di giustizia anomala, conferente al magistrato una sovranità assolutistica, che rasenta e valica gli ordinari spazi discrezionali preservati dall’ontologia costituzionale.
Per una tetra ironia della storia la combinazione nefasta tra gli odierni sicofanti, nobilmente appellati collaboratori di giustizia, e gli ostracismi giudiziari, che conducono alla diceria dell’untore ante litteram ed alla morte civile del solo avvisato od ipotetico accusato, costituiscono la iniqua tenaglia che rischia di stringere e stritolare una lobotomizzata società dell’inutile massmediale.
Il deflazionato, grottesco ed arbitrario culto della ragion di Stato, non può essere usato quale paramento di perentorietà per esigere vittime innocenti ad un altare profano di insulsi celebranti, arroccati in una concupiscente rappresentazione politica-giudiziaria collusiva e minante le fondamenta costituzionali di uno Stato.
La violazione della libertà è divenuta il grimaldello strumentale più idoneo per produrre artificiosamente ed accertare ipoteticamente una verità, attraverso l’abuso della custodia cautelare degradata a coattivo congegno uso a piegare la resistenza dell’inquisito, considerato un locus veritatis, ossia un ricettacolo di verità nascoste o celate.
La custodia cautelare, trasformata in una punizione anticipata, contiene un paradosso: crea attraverso la sofferenza del carcere un controstimolo all’impulso che spinge l’indagato alla menzogna, profanando la presunzione di non colpevolezza.
Scriveva Aurelio Agostino d’Ippona, tramandatoci dalla Chiesa clericalizzata come Sant’Agostino, nei suoi Discorsi “Gli uomini puniscono per avere cognizione se si deve punire”.