Lo sbarco dell’uomo sulla luna a distanza di 50 anni Il ricordo dell'avvenimento nell'opera "La mia Historia" di Luigi Mamone
L’ultimo anno della scuola elementare fu il 1969, l’anno in cui l’uomo avrebbe messo piede sulla luna. Già in precedenza la lettura del “Corriere dei Piccoli” e del “Messaggero dei Ragazzi” ci avevano arricchito e solleticavano la nostra fantasia verso quelle mete di conquiste di nuove frontiere tecnologiche e spazio siderali.
Davanti la televisione in bianco e nero seguivamo in collegamento diretto Cape Kennedy il lancio delle navicelle spaziali e i collegamenti durante il telegiornale da Cape Kennedy : una immensa sala piena di monitor e tantissimi uomini in camicia bianca e cravatta, con occhiali da vista dalle montature severe che seguivano da terra il volo in ogni sua fase fino al ritorno, che avveniva in mare ed era detto appunto “ammaraggio” e veniva seguito dalle televisioni di tutto il mondo, o forse, vista la logica dei blocchi del tempo, , è più corretto dire “dal mondo occidentale” in quanto le spedizioni sovietiche, che pur avvenivano, erano coperte da un rigoroso mistero. Il ritorno delle spedizioni spaziali diventava così un evento da seguire in diretta televisiva.
Tutti davanti la TV con i telecronisti collegati con le gigantesche portaerei americane dai nomi impossibili Enterprise, Ticonderoga, Roosevelt ed altri che non ricordo, impegnate nel recupero della capsula spaziale che dopo lunga attesa intravedevi scendere dal cielo appesa a tre enormi paracadute e poggiarsi sul mare flottando quasi preda di improvvisa stanchezza dopo quella incredibile infinita caduta. Poi i gommoni della Marina e i tecnici della Nasa si avvicinavano alla capsula e aprivano lo sportello, gli astronauti (per i russi si usava il termine cosmonauti) uscivano uno alla volta con le loro tute arancione – simili se si vuole, e con le debite proporzioni, a quelle dei piloti di F1 moderni – salutavano alzando il braccio e poi, giunti sulla nave ricevevano la corona d’alloro, quasi come accade su un podio sportivo per i vincitori di una gara.
Ma non divaghiamo! L’atmosfera di coinvolgimento spaziale prese un po’ tutti in quegli anni. I giornali, la radio, Nei bar, a scuola e perfino in Chiesa. L’acme si ebbe dopo lo sbarco di Armstrong e a Natale – nel presepe della Matrice di Jatrinoli, Don Pietro e Don Alfonso Franco collocarono anche un modellino del Lem, il modulo di sbarco che aveva portato sul satellite Neil Armstrong e il suo collega Lowell per realizzare un presepe “lunare. Con il LEM, il modulo di allunaggio, o meglio, è più corretto, di atterraggio sulla superficie lunare, davanti alla grotta di una Betlemme lunare. Quel grosso e freddo satellite della terra, privo di atmosfera, aveva scatenato in tutti, ragazzi, giovani, adulti e anziani, fantasie sfrenate di un progresso che per molti, subliminalmente, forse voleva significare fine della povertà e delle guerra, era di benessere e di progresso planetario, rimozione di quei ricordi tragici, tristi e sanguinosi della seconda guerra mondiale, allora conclusasi da poco più di venti anni e che in quel Werner Von Braun, ideatore del gigantesco Razzo Apollo identificava ora solo la nuova espressione della potenza americana e non più lo scienziato tedesco che durante seconda guerra mondiale progettava – per conto della Germania e , dunque, del regime Nazista i micidiali missili V1 e V2 destinati a bombardare Londra e che solo poco prima della disfatta era fuggito ponendosi sotto la protezione degli americani e trasferendo loro il suo bagaglio di studi e di conoscenze in tema di balistica e missilistica venendo così naturalizzato e posto alla guida del loro progetto di penetrazione e conquista dello spazio con capsule spinte dai possenti razzi vettore – antenati delle moderne astronavi shuttle.
La notte in cui vi fu lo sbarco dell’Uomo sulla Luna, il 21 Luglio del 1969, rappresenta una data e un evento entrati di diritto nella storia e- prima ancora – da sempre, espressione di un immaginario collettivo che attribuiva alla conquista della luna il valore di evento epocale che avrebbe caratterizzato il futuro dell’umanità, cambiandolo, aprendo scenari nuovi, avvicinando l’Uomo e l’Umanità tutta ad un sogno di onnipotenza planetaria.
La conquista della luna, per me, scolaro di quinta elementare, e per tutta la mia generazione, fu il toccare con mano il futuro e vedere la fantascienza concretizzarsi in realtà. Fu quello il “nostro 2000” – come esposi in un pezzo scritto il giorno di capodanno del 2000 e poco dopo pubblicato all’inizio dell’attuale secolo e millennio proprio con il titolo “Il nostro 2000” – e con esso l’apparente avverarsi di quella prospettiva.
Era il 1969 ma fu veramente quello il duemila. In quegli anni parlare del 2000 significava evocare scenari nuovi, futuribili, comunque lontani, di altissima tecnologia, di benessere planetario, di veicoli ultraveloci e di strumenti ultramoderni. Un’era futura e futuribile vissuta come sogno, come visione come materializzazione romanzata di concetti lungimiranti e utopici non disgiunti dai segni di una travolgente fantasia. Una thule, dunque, un obiettivo che soprattutto alla nostra generazione appariva raggiungibile. 30 anni a decrescere. Un tempo compatibile con la vita di un ragazzo degli anni ’60. La conquista dello spazio sembrava una corsa inarrestabile, L’ignoto siderale non ci spaventava. Anzi. Affascinava e affabulava con i nomi dei primi astronauti che sembravano eroi dei fumetti, con le loro tute e i caschi. dalle grandi visiere a nascondere interamente il viso: Alan Shepard su un razzo Mercury e la cagnetta Laika, lanciata in orbita dai russi con la prima della lunghissima serie di navicelle “Vostok”. E poi il “sovietico Yuri Gagarin e gli altri – a stelle e strisce o con la bandiera rossa con falce e martello – che seguirono a bordo delle tante navicelle” Gemini”e “Soyuz”. La conquista dello spazio grazie alla TV ci aveva mostrato le spedizioni delle Gemini e delle Vostok poi fu la volta dei razzi Apollo creati dal tedesco Werner Von Braun.
L’acme dell’entusiasmo si ebbe non tanto con lo sbarco dell’Apollo 11 ma con il volo dell’Apollo 8, pilotato da Frank Borman che con Lowell e Anders si avvicinò moltissimo all’orbita lunare facendo comprendere che lo sbarco sul satellite potesse essere realizzato. Da quella missione fu tutto un crescendo di attese: fino al lancio dell’Apollo 11 con a bordo Neil Armstrong, Edwin Aldrin e Pete Collins. Ricordo il giorno del lancio gli ultimi momenti degli astronauti, già calati dentro le loro tute bianche con la bandiera a stelle strisce sulle maniche e “Eagle”, l’aquila simbolo della missione sul petto, che uscivano dalla struttura a terra della base di Cape Kennedy salutando con il braccio e salendo poi su un ascensore che correva lungo la rampa di lancio e li avrebbe portati su in alto a oltre 100 metri di altezza proprio nella punta del razzo che era la loro navicella spaziale: astronave che nel volgere di pochi attimi dopo il lancio si sarebbe liberata del primo spezzone del razzo – il primo stadio – e poco dopo – ormai fuori dall’atmosfera anche del secondo – restando unita al terzo e ultimo spezzone: quello che conteneva anche il LEM e di cui si sarebbe liberata per ultimo, prima di iniziare l’infinita caduta libera che sarebbe stato il rientro a terra l’impatto contro gli strati alti dell’atmosfera e infine il tuffo nell’oceano.
Ricordo tutto di quella notte di Luglio quando avvenne lo sbarco. Nella casa di Via La Villa, nella stanza all’angolo c’era la TV. Le finestre aperte per il caldo, papà con la camicia bianca con le maniche ravvoltolate, la mamma con la sua scamiciata a fiorellini, l’ansia, certamente planetaria – di sentire che la discesa del modulo lunare LEM fosse andata a buon fine. Il grande studio televisivo allestito dalla RAI per quella trasmissione destinata ad entrare nella storia, con Tito Stagno, anchorman biondiccio con grandi occhiali dai vetri spessi e che ingigantivano le pupille – come quelli che un tempo erano costretti a portare gli astigmatici o gli operati di cataratta, un giovane Bruno Vespa, Vittorio Citterich e, da Cape Kennedy, con quella sua voce roca passata alla storia, il grande Ruggero Orlando. Quando Stagno diede conferma che Armstrong avesse poggiato il piede sulla superficie del satellite la tensione crollò.
L’attesa era finita. l’entusiasmo per il successo appariva comunque contenuto e il commento più udito risentiva – nel dialetto calabrese- come d’un non so che d’incredulità, “I mericani jìru supa a Luna” “Vidisti? I mericani arrìvaru nta luna “(Gli americani sono andati sulla luna” “Hai visto? gli americani sono arrivati nella luna “).
L’impresa non aveva contribuito a scuotere il torpore secolare degli adulti di quegli anni, già rassegnati ad un ineluttabile destino di subalternità e di ignavia. Di lavoro nei campi, di attesa di un lavoro, di partenze, di ritorni. Di tanfo di treni, di fumo di vapori. Nulla sarebbe cambiato nella routinarietà dei giorni. Per noi fu diverso. Protetti dall’inconsapevolezza dei nostri pochi anni, sognammo di volare, spinti da un razzo Apollo oltre l’atmosfera, nell’immensità nera dello spazio siderale e di essere protagonisti di quel futuro senza confine.
Conservo ancora l’adesivo distribuito in regalo con il mensile Epoca con lo stemma dell’aquila che si poggia sulla luna stringendo fra gli artigli un ramo di acacia. Lo stesso che gli astronauti avevano sulle loro tute spaziali.
Anni dopo, leggendo un bellissimo reportage di Oriana Fallaci, i tre astronauti dell’Apollo 11 , e come loro gli altri che replicarono la loro impresa, apparvero nel grigiore anodino della loro straordinaria quotidianità fatta di studio, esercizi, esperimenti, allenamenti in assenza di gravità e voli ad alta quota con la pochezza del travet provinciale della sonnolenta provincia americana del Middle East, fatta di certezze ferree e di perbeniste supponenze, di riti quotidiani e di verità pseudogmatiche inculcate dagli eventi bellici di cui quegli uomini pochi anni prima erano stati protagonisti: piloti d’aereo, e non astronauti, addestrati dalla USAF e dall’US Navy a considerare gli obiettivi da bombardare solo come un puntino sulla carta geografica da colpire a conferma dell’esattezza di un processo di calcolo, senza mai pensare che quel puntino avrebbe potuto essere un luogo abitato e che quell’esatto calcolo delle variabili più disparate fra velocità del velivolo, velocità di caduta del proiettile, rotazione della terra, velocità vento in quota, e di chissà quale altro parametro, altro non fossero che l’esatto calcolo di come uccidere vite umane. Per noi ragazzi erano degli eroi. Erano i piloti. Erano coloro i quali emulavano le gesta di Dan Cooper e in loro noi vedevamo il coraggio, la bravura, l’audacia, il bello,
Noi – in quel nostro 2000 dell’anno 1969– avremmo voluto essere come loro. Con lo sbarco sulla Luna l’estate di quel lontano 1969 volò via con lo sguardo rivolto al cielo stellato, agli astri, alla luna che ormai sembrava essere diventato un obiettivo alla portata dell’uomo e, dunque, alla nostra portata: non subito, forse. Ma per “quando saremmo stati grandi certamente si.