L’obiettivo della piena disoccupazione Considerazione provocatoria del giurista blogger Giovanni Cardona sulla maledizione del lavoro e del sogno di giungere ad un mondo di disoccupati
Si sente parlare sempre più comunemente di “piena occupazione” -, intendendosi una situazione politico economica nella quale tutti i cittadini atti (per età e salute) al lavoro possano essere occupati.
La definizione assume ormai il valore di un mito, di una meta meravigliosa da raggiungere, se si vuole avere felicità, benessere e pace sociale.
Le discussioni tra economisti non è che manchino, sulla certezza che l’obiettivo migliore sia “la piena occupazione”.
E’ vecchia storia, ritornante tuttavia, quella delle politiche sugli effetti stabilizzanti di una controllata disoccupazione.
Ma nessuno credo arriverà, come nessuno è mai arrivato a sostenere che ciò che va abolita e “l’occupazione”.
Ed è strano che tutte le teorie socio politico economiche si siano sviluppate sul presupposto che il lavoro sia indispensabile, al punto addirittura di teorizzare che il bene massimo consisterà nella “piena occupazione”.
Naturalmente tutti i processi rivoluzionari hanno tempi lunghi di realizzazione, anche se non dobbiamo nasconderci che sarebbe abbastanza più facile unire i popoli di tutto il mondo sotto le bandiere del riposo che sotto quelle del lavoro e del sacrificio.
Una volta proclamato lo slogan “Vogliamo una società di disoccupati” bisognerebbe passare ad una sollecita organizzazione della stessa.
Sarà bene subito spiegare che l’abolizione del lavoro non è un capriccio di stravaganti, ma il risultato di lunghi approfonditi studi che hanno portato ad escludere l’esatto contrario.
In Italia, per esempio, su quasi sessanta milioni di cittadini quanti sono a lavorare?
I pensionati pare siano un venti milioni.
I bambini e ragazzi di scuola un quindici milioni.
Tolti i disoccupati e i mai occupati (uomini e donne) restano di occupati stabilmente si e no quindici milioni di individui.
Dai quali naturalmente dovrebbero essere detratti tutti gli addetti ai lavori non strettamente necessari alla produzione dei mezzi di vita come i giudici, gli avvocati, i poliziotti, i burocrati, i militari, i politici, i vigili urbani, gli accalappiacani eccetera, eccetera.
Quelli che “lavorano” nel senso che fanno qualcosa di utile alla sopravvivenza degli uomini sono davvero pochissimi.
D’altronde è pacifico che nessun paese, nessuna organizzazione sociale potrà mai sopportare che “tutti” i suoi appartenenti producano.
Si può arrivare a tenere occupati “tutti” imponendo in modo autoritario lavori del tutto inutili ed improduttivi, ma in tal caso la categoria degli occupati fasulli e dei reali parassiti cresce a dismisura, con la lievitazione di ingiustizie e oppressioni.
Stabilito che il lavoro è una punizione bisognerebbe adibirvi volontari (i masochisti non mancheranno mai) e reprobi.
I volontari, il cui servizio dovrebbe tuttavia essere rigorosamente limitato nel tempo potrebbero essere incoraggiati da incentivi di varia natura, psicologici, sessuali, monetari eccetera.
I non occupati dovrebbero dedicarsi alla organizzazione di una società in cui si raggiunga il massimo di benessere materiale e spirituale con il minor consumo di beni provenienti dalla natura.
I reprobi sarebbero condannati al lavoro.
Basterà stabilire quante unità lavorative sono indispensabili ogni anno (politica del piano) per produrre il necessario alla intera comunità, per programmare i criteri e le modalità delle forze lavoro.
Qualche cosa di simile alla mobilitazione militare, che viene fatta in rapporto alle necessità della domanda (fortissima in tempo di guerra).
Occorrono tempi lunghi, indubbiamente, ma l’obiettivo della “piena disoccupazione” ci sembra importante e più piacevole di quella della “piena occupazione”.