Manifesto contro Papa: Cassazione condanna calabrese Il manifesto ritraeva Benedetto XVI, il segretario Padre Georg e un membro maschile
CATANZARO – Ha gravemente vilipeso il Papa emerito Benedetto XVI e il suo segretario personale, monsignor Georg Ganswein. L’artista 72enne di origini calabresi, Xante Battaglia, nativo di Gioia Tauro ma residente in Lombardia, è stato così condannato a 800 euro di multa dalla Cassazione per vilipendio alla religione cattolica con l’esposizione, nel centro di Milano, di un trittico con tre fotocopie in bianco e nero raffiguranti rispettivamente Benedetto XVI, un pene con testicoli e il segretario personale padre Georg con una volgare didascalia “Chi di voi non è c… scagli la prima pietra”.
La Cassazione, convalidando il giudizio di merito, ha fatto sue le motivazioni della Corte d’Appello di Milano che, nel dicembre 2013, aveva bollato il trittico come «altamente volgare e idoneo al vilipendio della religione cattolica andando a colpire il Papa, al vertice della struttura ecclesiastica, ponendone l’effigie – con ciò facendo intendere rapporti interpersonali di natura non consentita a chi ha fatto voto di castità – accanto a quella del suo collaboratore più stretto e, collocando fra di esse, l’immagine del membro maschile».
Completamente inutile la difesa dell’ultrasettantenne in Cassazione volta a dimostrare che l’opera era da interpretare «esclusivamente in chiave critica, ironica e satirica espressione artistica quale declinazione del più generale diritto costituzionale di libera espressione del pensiero». A discolpa, la difesa accampava inoltre che l’opera non era da ritenersi offensiva, ma che l’intento dell’artista era «la rappresentazione della ritenuta posizione oppositiva nei confronti dell’omosessualità delle gerarchie ecclesiastiche».
Piazza Cavour ha bocciato su tutta la linea la tesi difensiva e ha evidenziato che la Corte d’Appello «con argomento adeguato e lineare ha concluso che risulta violato il limite dovuto al rispetto della devozione altrui, ingiustamente messo a repentaglio da una manifestazione che, lungi dall’essere meramente critica di costumi sessuali non consentiti ai ministri del culto, appare costituire una mera contumelia, scherno e offesa fine a se stessa».
Più in generale, piazza Cavour ricorda che «in materia religiosa la critica è lecita quando si traduca nell’espressione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da una indagine condotta, con serenità di metodo, da persona fornita delle necessarie attitudini e di adeguata preparazione». Invece, annota ancora la Cassazione, «trasmoda in vilipendio quando attraverso un giudizio sommario e gratuito manifesti un atteggiamento di disprezzo verso la religione, disconoscendo all’istituzione e alle sue essenziali componenti (dogmi e riti) le ragioni di valore e di pregio ad essa riconosciute dalla comunità».
Avverte ancora la suprema Corte che per fare scattare la condanna «non occorre che le espressioni offensive siano rivolte a fedeli ben determinati, è sufficiente che le stesse siano genericamente riferibili alla indistinta generalità degli aderenti alla confessione religiosa».