Non esiste un diritto a non nascere se non sani Le Sezioni Unite chiariscono che incombe sulla madre solo la dimostrazione circa il nesso fra anomalie del feto e pericoli per la salute della donna, ma non il diritto a decidere o meno se il feto può essere abortito solo perché di un bambino down
Il bambino è nato down ed i genitori chiedono il risarcimento del danno sia per
conto proprio che per il bimbo al medico “superficiale” che non si accorse della
sindrome quando la donna era incinta. Ed allora la Cassazione, in particolare le
Sezioni Unite, con una decisione di rilevante importanza fanno il punto giuridico
sulla situazione in tali casi statuendo importanti principi che per Giovanni D’Agata,
presidente dello “Sportello dei Diritti”, certamente faranno discutere anche
per le implicazioni etiche che ne discenderanno.Gli ermellini, infatti, con la sentenza
25767/15, pubblicata il 22 dicembre sottolineano che il nostro ordinamento non prevede
un diritto a non venire al mondo se non sani. Ai fini della sussistenza della responsabilità
del professionista non è sufficiente che sia stato impedito il diritto della donna
a interrompere la gravidanza: è necessario invece dimostrare il nesso di causalità
fra le rilevanti anomalie del nascituro e il grave pericolo per la salute fisica
o psichica della mamma, ma l’onere della prova può comunque essere assolto per
presunzioni, anche nella parte in cui le si chiede di dimostrare che avrebbe positivamente
esercitato la scelta abortiva. E ciò in base ai fatti allegati. Per i giudici della
Suprema Corte, non è quindi risarcibile il danno al soggetto non ancora nato al
momento della condotta colposa del medico e deve essere dunque rigettata la domanda
proposta per conto del nato disabile. Nel caso di specie, il ricorso dei genitori
della bimba affetta da sindrome di Down è accolto nonostante il parere contrario
del sostituto procuratore generale. Nella fattispecie, se il sanitario ha violato
l’obbligo di esatta informazione alla gestante, tuttavia il risarcimento alla madre
non può essere riconosciuto automaticamente perché bisogna provare la sussistenza
delle condizioni di cui alla legge 194/78 sull’interruzione volontaria della gravidanza.
Di certo, integra la sussistenza di una responsabilità civile la condotta negligente
del medico che ha impedito alla donna di scegliere se abortire o no. Ma servono anche
accertamenti clinici che dimostrino il grave pericolo per la salute fisica o psichica
della donna perché diversamente l’aborto sarebbe un reato e verrebbe esclusa l’antigiuridicità
del danno. Diversa è la questione della prova circa la circostanza che la donna
in tal caso avrebbe abortito. Non c’è dubbio che per il principio di vicinanza
della prova l’onere debba gravare su di lei. Ma il giudice di merito che non aveva
riconosciuto le ragioni della donna non aveva esaminato la possibilità di assolvere
il relativo onere in via presuntiva e dunque dovrà provvedere il giudice del rinvio.Per
ciò che concerne la domanda di risarcimento del nato disabile a carico del medico
si evidenzia, come detto, che il nostro ordinamento esclude la sussistenza di un
diritto a non nascere: in tutti i Paesi occidentali a compensare le difficoltà cui
il bambino affetto dalla sindrome down andrà incontro è la solidarietà generale
e dunque spetta al sistema previdenziale e sanitario. L’orientamento che riconosce
la pretesa nei confronti del medico, osservano gli “ermellini”, tende «verso
la giustizia sostanziale» ma finisce per attribuire al risarcimento «un’impropria
funzione vicariale», che sostituisce le misure di assistenza sociale. Senza dimenticare
che affermare la responsabilità del medico aprirebbe la strada a un’analoga responsabilità
della madre che, nelle circostanze dell’articolo 6 della legge 194/78, abbia portato
a termine la gravidanza benché correttamente informata.