Non posso tacere, per amore della verità Riflessione di Vincenzo Leonardo Manuli sull'anniversario di don Diana
Non nascondo un intimo senso di “bellezza” verso alcune figure civili e religiose che hanno rischiato la loro vita contro le mafie. Oltre la simpatia, l’empatia e la riconoscenza per l’elevata testimonianza dell’offerta della vita, ritengo occorra mantenere viva la memoria, e agire, come diceva don Diana (1958-1994): «Basta lamentarsi è l’ora di fare!». Il 19.03.2019 ricorre il venticinquesimo anniversario del suo assassinio, barbaramente ucciso il giorno del suo onomastico (19.03.1994), quando si apprestava ad officiare la messa nella parrocchia san Nicola di Casal di Principe, in provincia di Caserta, già rivestito dei paramenti sacri per la celebrazione del rito. La vita di don Peppino è tesa tra la parola e l’ascolto, chiavi di lettura per aiutare il popolo a giungere alla verità, nel quale si prospetta un uomo pratico e alla ricerca di Dio nella storia, il cui ricordo – come il coraggio di tanti altri testimoni autentici colpiti dalla violenza mafiosa – non deve essere risolutamente un rito, quanto il mantenere sempre accesi i riflettori sulle mafie: “Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, Padre Puglisi, Livatino, Impastato, don Oscar Romero, don Peppino Diana e tanti altri meno noti, sono i santi laici, credenti e non, che hanno testimoniato con la vita le loro scelte coraggiose” (R. D’AGATA, Non tacerò, 2013).
L’azione di don Diana ha “graffiato” le coscienze, senza risparmiare la “parola” contro la mafia e ogni ingiustizia, contro la connivenza con il malaffare, una scelta che lo ha condotto alla morte, e che la camorra ha tentato di delegittimarlo con la calunnia. Non si è mai arreso davanti alla faticosa speranza di liberazione, proseguendo nel dovere urgente di fare qualcosa, senza fermarsi ai soliti slogan: “A me non importa chi è Dio ma da che parte sta”, sono alcune parole vibranti e di denuncia di un prete contro la camorra, che la «dittatura armata» – com’egli l’aveva definita –, barbaramente uccise. Papa Francesco, – sempre con il suo stile di grande comunicatore fatto di gesti profondi e simbolici –, nella veglia di preghiera del 21 marzo del 2014 a Roma, nel ricordo di tutte le vittime delle mafie, ha indossato la stola del giovane prete Diana, pregando anche per i familiari delle vittime e invitando a non arrendersi di fronte al male.
La parola centrale del prete-coraggio è stata “legalità”, che sgorgava da una vita vera, limpida, senza brancolare o tentennare, in un territorio di frontiera, nel quale ha osato es-porsi e sfidare non solo la criminalità ma anche il silenzio complice di chi ha preferito tacere. I suoi interventi sono stati di un forte contenuto educativo e testimoniale, nelle scuole, nelle manifestazioni civili, e per sottrarre molti giovani alla manovalanza della camorra e del clan dei casalesi. Per svegliare le coscienze, era consapevole che occorreva fare di più. Non solo predicava e denunciava, promuoveva cortei, scriveva opuscoli, contro anche l’indifferenza sociale, ecclesiale e politica, esortando alla “luce della parola di Dio” in un grido di dolore e di amore, saldando con la forza della Parola di Dio il cielo e la terra.
Personalmente mi interroga il suo essere prete che sa mettere insieme «evangelizzazione e promozione umana». Con il suo sacrificio si è passati dalle “terre della camorra” alle “Terre libere di don Diana”, una scommessa impensabile quando lui era in vita. Il noto documento «Per amore del mio popolo», fatto circolare nel Natale del 1991, nella forania della sua diocesi e in diverse parrocchie del casertano, mosse tante coscienze. Egli non si asteneva di rivolgersi a quella “chiesa del silenzio” timida e arroccata su sé stessa, esortando i preti a non tacere nelle omelie e nelle catechesi, di parlare e di prendere posizione contro ogni forma di sopruso e di sopraffazione. Non solo, nel manifesto citato si rivolse in termini di denuncia e di proposte pure ai politici, troppo spesso distanti dalle problematiche sociali e alle forze di polizia inermi davanti alla violenza: «L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc.; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili».
La sfida più difficile di Diana – e di cui egli è stato una delle tante vittime della mafia –, è stato vincere quell’indifferenza del “noi”, di quella “maggioranza silenziosa” che il prete di Casal di Principe cercava di “pungolare”, denunciando che non si può essere cittadini a “intermittenza” o cristiani a “convenienza”. Quando si muore per essersi schierati contro il male è perché si è soli. Quello che lui e altre vittime per mano della mafia hanno fatto, e in solitudine, altri dovevano essere insieme a loro, perché non ci sia mai nessuno solo: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno» (G. FALCONE – M. PADOVANI, Cose di cosa nostra, 1993). Don Diana ha preso sul serio la sua “vocazione”, ha coinvolto tanti giovani, in sogni e progetti, oggi vivi e operativi in tante cooperative e comitati, senza la paura di pronunciare il nome “camorra”, rendendosi voce scomoda, per lottare con speranza e con coraggio, e mettendo in pratica una progettualità, incalzando le chiese locali per una pastorale di liberazione delle mafie.