“Rosso”, ecco il nono capitolo del libro di Mario Aloe
redazione | Il 03, Mar 2014
Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il nono
“Rosso”, ecco il nono capitolo del libro di Mario Aloe
Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il nono
19 MARZO 1996, BASSO TIRRENO
Il cielo si era aperto lasciando intravvedere una striscia di rosso chiaro, un colore tenue, offuscato ancora dal nero delle molte nuvole che incombevano.
Il vento aveva vinto la sua partita e, adesso, la pioggia era cessata: una pioggia continua e fastidiosa che lo seguiva dalla Locride.
La previsione meteo, appena ascoltata alla radio, aveva ragione, già da domani sarebbe ritornato discreto se non buono.
Il vento era forte, piegava gli alberi ai margini della Tirreno Inferiore ed alcune folate spostavano l’auto. Era, di continuo, costretto a controbilanciare con lo sterzo l’auto per tenere la strada. Le raffiche arrivavano da ovest increspando il mare e in lontananza si vedeva la spuma sollevata.
Le palummelle bianche alzate dal vento davano l’impressione di volare sull’acqua inseguendosi.
Sera! Come le altre volte aveva dovuto presentarsi di persona a riferire e a ricevere il consenso definitivo da don Lino. Anche quello era stato un viaggio di merda da Roma in Calabria, ma gli affari erano affari e lui non poteva decidere per il locale: la parola definitiva spettava al capo.
Aveva concordato tutti i dettagli, il luogo dell’affondamento, il compenso dovuto e, persino, la data, ma, ora, c’era bisogno che don Lino desse il proprio consenso.
Lui doveva ascoltare la parola uscire dalla bocca del boss. Niente telefono, niente carta o emissari, ma, come al solito, i gesti del vecchio, il suo sì sonoro.
Era entrato a far parte della ‘ndrina venticinque anni prima.
Ricordava, tuttora, il rito di affiliazione, la garanzia data dal suo amico Ciccio, il lungo apprendistato e, poi, il trasferimento al nord. Non lo avevano impiegato come picciotto decidendo, invece, di sfruttare la sua capacità a scuola, lo avevano laureato.
Il cielo, lentamente, diveniva rosso all’orizzonte, un rosso da ricordi di piccirilli, un rosso da ritorno sulla strada dopo una giornata passata in casa ad aspettare che spiovesse.
Era inutile, non sarebbe mai cambiato; il tempo aveva la stessa lunghezza esasperante di un eterno aspettare e, poi, cosa aspettare: la partita a carte nella cantina prima ed adesso al bar, lo struscio serale nella piazza, l’attesa delle ragazze e gli occhi puntati sulle loro minne e sulle loro gambe.
Avvertiva un senso di oppressione quando ritornava: spazi angusti, poca luce, ritmi della vita lenti e giornate che non finivano mai. Sentiva, a volte, il suo respiro divenire affannoso, alla ricerca di aria come se fosse rinchiuso in un tunnel senza possibilità di uscirne.
Apparteneva a quella terra, i legami con la famiglia e la ‘ndrina scorrevano nel suo sangue, erano parte essenziale della sua vita e senza di essi si sarebbe sentito un nulla, una pianta tagliata alla base, senza possibilità di dare dei frutti, di essere, di avere un posto nel mondo.
Ora era ricco, abitava in una bella casa, i suoi figli frequentavano scuole private, sua moglie vestiva abiti firmati e lui frequentava gente altolocata ed interessante. Aveva amici potenti: imprenditori, politici, dirigenti pubblici e privati e soprattutto massoni.
Il salto di condizione era avvenuto quando era diventato santista, appena dopo aver ricevuto l’incarico di curare gli affari del locale.
Non più rapporti coi soli ‘ndranghetisti, conti di estorsioni, libri delle paghe alle vedove o alle mogli di carcerati da tenere o avvocati da pagare, ma gli investimenti, il riciclaggio, le operazioni bancarie, i prestiti per la costruzione dei capannoni, degli alberghi e dei villaggi turistici.
Così era cresciuto fino a divenire un incappucciato, uno dei pochi dell’intera organizzazione: si sentiva ormai un imprenditore.
Senza di lui il locale sarebbe rimasto povero: ancora pizzo invece che coca e rifiuti e pochi spiccioli al posto di tanti miliardi.
Don Lino non capiva che non poteva più affidargli il lavoro sporco, che era una perdita di tempo e denaro impegnarlo in queste piccolezze.
Venire sul Tirreno per incaricarsi dell’affondamento, lordarsi insieme a gente da poco, soldati o caporali, mentre lui, in quel momento, poteva essere seduto all’Hilton di Roma a trattare miliardi.
Neppure appartenere alla Santa lo escludeva dall’obbligo del rispetto e da funzioni di manovalanza.
La regola imponeva che dovesse obbedienza ed il capo aveva deciso e lui, ora, si trovava a guidare una macchina da quattro soldi, con 500 milioni di lire in una busta di plastica ed una nave da affondare.
Il locale a cui apparteneva era una delle organizzazioni più
importanti della Calabria, composto da ‘ndrine potenti, sia per storia che per numero di affiliati e ricchezza di traffici legali ed illeciti.
Doveva essere guardingo e moderare la lingua: trattava con persone piccole, che credevano di essere importanti e non capivano niente se non i codici primordiali dell’organizzazione: era tutto un guaio, ma non poteva sottrarsi.
Finalmente il paese: aveva bisogno di un motoscafo veloce, di due o tre picciotti per fare il lavoro, dell’esplosivo e, poi, occorreva sistemare il personale della nave.
Aveva tutto nella testa, ogni passaggio, ogni particolare: non aveva tralasciato nulla. Era notoria la sua capacità di programmare le cose, di essere consequenziale e di non scordare nulla.
Questa qualità gli aveva permesso di salire nella gerarchia, di evitare il coinvolgimento negli affari andati a male, di non essere stato mai coinvolto in indagini giudiziarie. Tale dote gli era riconosciuta anche all’interno dell’organizzazione.
L’incontro con il boss locale era una questione di rispetto: non si potevano fare affari in un territorio controllato da un’altra ‘ndrina o, almeno per farli, c’era bisogna del loro consenso. La regola, apparentemente vecchia, permetteva di avere il controllo completo del territorio e di evitare inutili guerre per bande.
La nuova struttura dell’organizzazione aveva introdotto un gruppo di comando flessibile, ma autorevole che aveva accompagnato lo sviluppo degli affari evitando inutili conflitti tra ‘ndrine.
Loro non erano la mafia, non lo volevano diventare, con una commissione a capo dell’organizzazione, una struttura a piramide. Non erano la mafia e ne erano contenti. Avevano potuto evitare i pentiti: chi tradiva, in Calabria, mandava in carcere il padre o il fratello e loro erano una famiglia tenuta insieme dal sangue e dalla terra.
I preliminari erano stati discussi, ora toccava a lui portare la “parte”, spiegare l’affare e chiedere il supporto logistico.
Doveva rendere la cosa credibile, ma non poteva raccontare tutto, non era il caso di rischiare i contatti e la rete con per66
sone di cui non sapeva il grado di affidabilità. Certo, erano uomini di rispetto, legati da un patto di ferro e controllati direttamente da Cosenza, ma era meglio raccontare poco, il necessario.
Anche lui, probabilmente, non sapeva tutto: percepiva di essere una rotella dell’ingranaggio e se c’era un ingranaggio esisteva una macchina e da qualche parte un conducente che la guidava decidendo dove portarla, dove fare benzina, da chi cambiare i pezzi e da ultimo a chi dare l’incarico di meccanico.
Il ragionamento lasciava comprendere questo, lui non doveva andare oltre, chiedersi altro, cercare di capire e di conoscere i vari passaggi: a loro era lasciato il lavoro finale, affondare le navi, interrare i bidoni.
L’organizzazione controllava il territorio ed aveva i rapporti giusti per trasportare i rifiuti, far sparire le prove, garantire la riservatezza evitando casini.
Lo aspettavano al porto e lo portarono su una barca, un peschereccio.
Si trovò di fronte un uomo tozzo e tarchiato, sulla cinquantina: doveva essere il don locale. Non lo conosceva.
Lo lasciarono solo con lui. Di fronte aveva una persona apparentemente semplice, vestito alla meglio, con uno sguardo torvo e una forte intensità negli occhi.
Si strinse il mento, come segno di riconoscimento, senza ricevere risposta. Il boss locale non si toccò il mento nel gesto di accarezzarsi la barba: non era un santista.
I rituali, oltre ad avere un proprio fascino, servivano a riconoscersi, ad individuare le gerarchie, a stabilire le precedenze, ad evitare casini e non commettere cazzate.
No, il boss locale non aveva partecipato alla formazione del circolo a Polsi, non aveva ricevuto l’investitura in nome di Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Giuseppe La Marmora, non era passato da sgarrista a santista, non apparteneva a coloro che decidevano nella ‘ndrangheta.
Lui aveva giurato sul veleno ed era diventato non giudicabile: non poteva tradire, avrebbe tradito se stesso e da se stesso si sarebbe dovuto punire con il veleno su cui aveva giurato.
«Saluti a vua don Peppe, vi stavamu aspettannu. Don Lino nuostru, rispettu a illu, mi ha fatto parrari della vostra venuta: sono lusingato assai dell’attenzione che mi portate e dell’onore che mi fate con la vostra presenza. Siamo a disposizione, fermo restando che nulla ci deve essere ammucciatu, qua cummannamu nua».
«Don Mimmo sono qua per porgervi i rispetti nostri e per fare affari cu’ vua. Le regole le conosciamo e non vogliamo romperle, abbiamo degli affari, ma non li faremo senza di voi e il vostro consenso: siamo persone di rispetto. Don Lino mi manda per definire l’accordo e portare a termine l’operazione. Ecco la vostra parte».
La busta con le banconote fu posata su un tavolo da bar che si trovava al centro della cabina del peschereccio.
«Questa è la prima operazione che facciamo insieme, ce ne saranno altre, se siete d’accordo, lavoro facile con pochi rischi e nessun pericolo, anche gli sbirri si volteranno dall’altra parte».
«Facciamo affari con la polizia?».
«No, facciamo affari con chi comanda, con chi sta supra e dobbiamo stare alle loro condizioni. Noi forniamo gli uomini, loro pagano ed organizzano tutto e noi non dobbiamo fare domande, ficcare il naso, essere curiosi, impicciarci».
«E in cosa commerciamo per non poterlo fare da soli? Forse non siamo tanto potenti da fotterli?».
«Don Mimmo mio, siamo potenti, ma mostrare i muscoli e sparare qualche colpo di fucile non ci porta frumento e loro possono fare a meno di noi. Non vogliamo fare scappare la gallina dalle uova d’oro».
«Di che si tratta di così importante?».
«Munnizza, rifiuti speciali e, in alcuni casi, tossici: immagazzinati nelle navi, stivati in fusti di acciaio ricoperti di cemento. Il nostro compito è di affondare la nave a largo della costa, senza destare attenzione, senza rumore evitando pubblicità e, soprattutto, evitando gli occhi e le orecchie di questi comunisti fottuti, travestiti da ambientalisti. È pesante la busta? Don Mimmo prendetela in mano, è pesante! La vostra parte è di mezzo miliardo, in banconote da 50 e 100 mila lire,
un bel gruzzolo e per metterlo insieme ci vuole il lavoro di mesi e mesi passando, di negozio in negozio, a riscuotere la tassa».
«La merda la prendiamo noi però e la conserviamo sotto il nostro letto e a nua ci piace dormire senza puzza e pure ai nostri piccirilli».
«Vossia sa che la merda la possiamo lasciare agli altri, agli strunzi: un po’ di questi carichi e, poi, si può andare altrove, volendo».
Si rendeva conto di dire minchiate. Il legame con la terra, il sangue veniva messo in discussione: era qualcosa in più della cocaina. In quel caso si vendeva la roba fuori dalla famiglia, si cercava di piazzarla agli altri, mentre i rifiuti mettevano in pericolo la terra, la avvelenavano, la rendevano non usabile anche per loro, per i loro figli.
«E poi la mettiamo nel mare, in posti profondi assai, lontano dalla terra e ci assicurano che i bidoni sono fatti per durare tanto, decine di anni. Don Mì o lo facciamo noi l’affare o lo fanno altri e non siamo nemmeno sicuri che non ce la portino lo stesso sotto il naso o come dite voi, il letto».
«Don Peppe, non sono grande abbastanza da giudicare queste cose e se lo dice Don Lino, noi tutti dobbiamo crederci e vossia è la bocca sua. Cosa dobbiamo fare?».
«Serve un motoscafo d’altura, bello veloce, una trentina di chili di esplosivo, di quello che avete ricevuto dall’Olanda, due o tre picciotti svegli e un peschereccio per sbarcare l’equipaggio: questo chiediamo, al resto ci penso io e, non per mancarvi di rispetto, meno si sa e meglio è».
Percepì il disappunto dell’uomo, ma, presto, sparì dai suoi occhi il lampo di crudeltà che lo aveva attraversato.
Don Mimmo sapeva che non poteva chiedere altro: aveva avuto riconosciuta la propria autorità, avevano rispettato il suo ruolo e riconfermato il suo potere sul territorio; anche se superiori a lui non avevano mancato di rispetto. Poteva bastare, anzi rafforzava la sua immagine nei confronti dei suoi e i denari dell’affare facevamo comodo. L’essere inseriti nel giro lo portava in una posizione di forza sulla costa rispetto alle altre famiglie: era un buon affare, così decise.