“Rosso”, ecco il quindicesimo capitolo del libro di Mario Aloe
redazione | Il 14, Apr 2014
Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il quindicesimo
“Rosso”, ecco il quindicesimo capitolo del libro di Mario Aloe
Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il quindicesimo
CARTA DI SITI SOMALI INQUINATI
Tremila chilometri di costa e nessun controllo, la guardia costiera inesistente, la marina smobilitata ed i pochi mezzi navali chiusi ad Aden permettevano un assalto, selvaggio e distruttivo, alle risorse del mare e così la povertà del popolo aumentava, le fonti di sostentamento diminuivano: un affare di trecento milioni di dollari ogni anno interessava gli altri e finiva sui tavoli dei ristoranti di Parigi, Madrid e Seul.
Notava la rassegnazione che si impadroniva della gente, i villaggi che diventavano più polverosi e dipendenti dell’aiuto delle organizzazioni internazionali, dei governi occidentali.
Veniva tagliato il legame degli uomini con la propria terra, con il proprio mare ed indotta la dipendenza mentre moriva, in questo modo, l’orgoglio di essere padroni del presente e del futuro.
Le barche rientravano nei villaggi con sempre meno pescato e le tecniche rudimentali, in possesso dei locali, nulla potevano contro la tecnologia delle navi attrezzate e dei pescherecci stranieri.
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I suoi amici a Roma non si rendevano conto che l’aragosta o il crostaceo che mangiavano a Trastevere portava, dentro di sé scritta, la morte di tanti esseri umani. Non si rendevano conto degli effetti delle loro azioni: erano abbagliati dall’abbondanza e dal benessere, dal proprio benessere, dal possesso dei beni e dalla pratica ossessiva dello spreco; nella loro innocenza erano peccatori
«Assalamu alaikum».
«Pace a te Ayman, Dio ci ha abbandonato. Ritorno, ora, da casa di mio fratello Kadim e le sue condizioni sono peggiorate. Vomita sangue e la febbre lo divora: non sappiamo più cosa fare, anche le tue medicine hanno fallito».
«Wadi fratello, non riesco a capire la malattia, sembra che Kadim abbia di tutto: una febbre inspiegabile, bolle su tutto il corpo, vomito, perdita dei capelli. Ho studiato e chiesto ad alcuni medici italiani e soltanto un’irradiazione può causare tutto questo. Il suo corpo è come se fosse stato sottoposto al contatto con sostanze radioattive. Gli ho dato il bicarbonato, ma non sono riuscito».
«Fatima ha chiamato i guaritori e ha fatto bruciare incenso per purificare la casa dal male e, poi, hanno spalmato il corpo di mio fratello di aloe per allontanare la disgrazia. Ho guardato, con dolore e rabbia, quello che facevano, ma non ho avuto il coraggio di cacciarli, di allontanarli ed ho sperato che riuscissero a ridargli la salute: ho creduto disperatamente. Ho pianto in silenzio la mia impotenza, senza versare lacrime e l’animo mio si allontanava dall’Innominabile, cercava, nel buio della disperazione, le risposte. Hanno recitato la formula sacra: “Facciamo scendere nel Corano ciò che è guarigione e misericordia per i credenti… e Allah – subhanaHu waTa’ala – dissiperà il male di tutti coloro che Egli trovi giusti nelle opere e nei loro desideri. Così, colui che è toccato dalla magia e dai malefici dovrà agire con umiltà nei confronti di se stesso, fare du’ah verso Allah, approfittando dei momenti in cui le invocazioni hanno più probabilità di ottenere una risposta, come l’ultimo terzo della notte, quando ci si trovi in stato di prosternazione, tra la grande e la piccola chiamata alla preghiera. Le invocazioni elevate in questi momenti potranno
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essere accettate e ciò costituisce un mezzo per liberare colui che è stato preso dalla stregoneria”. La preghiera è stata recitata nella casa di mio fratello. Anche io ho pregato, Ayman, con il corpo rivolto verso la Mecca, Colui che possiede le cose chiedendo che Kadim venisse restituito a sua moglie, ai suoi figli e a noi tutti. Ho pregato durante la notte e nei momenti rituali propizi, mi sono prostrato ed umilmente ho invocato l’Innominabile. Nulla è successo e, allora, ho pensato che Dio ci ha abbandonato perché non siamo meritevoli e le nostre vite sono dannate ma, subito, ho capito che siamo innocenti ed è ingiusto che la morte si prenda mio fratello: non sono blasfemo, non mi ribello all’Onnipotente».
«Hai pensato bene, Allah è misericordioso e tutto gli appartiene, ma lascia a noi il percorso della vita: noi produciamo il male e facciamo il bene. Il male è, qui, tra noi, ammorba la nostra terra, riempie il mare, intossica i pesci, impesta l’acqua dei pozzi e giunge da lontano: lo portano dai paesi ricchi. Tuo fratello ha toccato sostanze pericolosissime, il cui contatto causa la morte o terribili malattie o ha bevuto acqua inquinata da scorie che ha un effetto più rapido. La diagnosi per Kadim è contaminazione da sostanze radioattive ed è una diagnosi di condanna a morte, senza scampo. Nulla possono i guaritori, nulla le preghiere e nemmeno la medicina. Non riusciremo a riaverlo tra noi: cercherò di fare in modo che soffra il meno possibile. Lo avevo sospettato, poi ho cercato tra i libri, ho telefonato in Australia ed in Italia ed ho avuto la certezza».
«Allora, anche altri possono avere la stessa malattia, pure le donne, anche i bambini: siamo perduti, il villaggio è perso, le nostre poche cose perdute».
La voce di Wadi era cantilenante, sommersa dalla disperazione e alla ricerca di un perché, alla ricerca di una possibilità, di una strada per riaffermare la vita.
«Sono quei fusti che la mareggiata ha portato sulla spiaggia, sono quelle navi che scaricano a mare di tutto, sono gli infedeli Ayman che causano le nostre disgrazie. Loro ci portano la morte, la trasportano dai loro paesi e la lasciano, qui, tra noi. Non hanno pietà di nessuno di noi e, dopo averci privato del cibo, ci avvelenano».
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«All’ospedale ho seguito casi di intossicazioni lievi, diarree e vomiti con la nascita di bollicine sul petto, sulla schiena, a volte, sulle mani e le gambe. Le ho scambiate per normali malattie della pelle o disordini intestinali ed i farmaci che ho dato non hanno portato beneficio e solo il tempo ha ridato la salute. Mi sono informato: anche nell’Ogaden, a sud di Mogadiscio e a nord, nel Somaliland, sono state riscontrate le stesse malattie, gli stessi sintomi, curati, ma guariti soltanto dal tempo. Un gruppo di medici italiani, di passaggio nel nostro ospedale, mi ha aperto definitivamente gli occhi: l’Occidente ci sta inondando di materiali radioattivi. I rifiuti delle loro centrali, delle loro industrie, dei loro ospedali vengono mandati da noi ed abbandonati senza nessuna protezione. Siamo stati venduti dai nostri generali, la nostra terra è stata venduta per le armi e le armi servono a mantenerci schiavi. Più dura nel tempo la guerra e più noi siamo indifesi e in balia dei malvagi».
«I miei nipoti rimarranno senza padre, Fatima senza marito e, chissà, quanti altri seguiranno la loro sorte e noi siamo impotenti. Passeggiamo su queste dune, dove abbiamo giocato e ci siamo inseguiti da bambini, ed altri bambini giocando ed inseguendosi troveranno il veleno, senza saperlo: la gioia dei loro giochi sarà causa della loro rovina. La morte li seguirà, come un’ombra, fino a prenderli e portali via».
«Faremo tutto quello che è nelle nostre possibilità, denunceremo la cosa, ma siamo soli, senza un governo, una polizia, una giustizia».
«Ayman, sì soli, ma faremo qualcosa, non possiamo perderci, rassegnarci: Allah non lo vuole e neanche io lo voglio. Pensavamo, già prima di queste disgrazie, di ribellarci alla pesca a strascico, alla depredazione del mare. Abbiamo parlato, discusso e deciso che era giunta l’ora di attaccare i pescherecci, impedire loro di impossessarsi del nostro pesce, riconquistare gli spazi marini per le nostre barche».
Il sole era diventato di fuoco, una luce folgorante incendiava il cielo e accarezzava la pelle. Barche di legno, vecchie di decenni e, alcuni, scafi in vetroresina popolavano la spiaggia e soltanto poche di esse erano munite di motore».
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«Come assalterete i pescherecci? Non vedi la flotta che possedete! Riescono, appena, a tenere il mare e i vostri vecchi motori non avranno la velocità necessaria per raggiungerli e poi cosa farete? Gli direte: arrendetevi! Vi rideranno in faccia e vi manderanno al fondo, vi passeranno con le loro navi sopra, romperanno, facilmente, il legno marcio delle vostre barche, speronandovi».
«No, non accadrà! Abbiamo risparmiato per comprare due lance con motori potenti e ritrovato i vecchi fucili. Le abbiamo acquistate, ma ci mancano, ancora, seimila dollari per completare la compera e averle. Le andremo a prendere a Bosaso. Tu ci aiuterai Ayman, la tua famiglia è ricca. Ci servono quei soldi per proteggerci. So, che tu sei fedele come indica il tuo nome, e non ci abbandonerai. Ci devi permettere di difenderci, di difendere Fatima ed Asiya. La volevi, prima di partire, lei ti aspetta: da ragazzo la guardavi, con occhi ardenti, la seguiva mentre andava al pozzo a prendere l’acqua. Non permettere che la nostra vita venga cancellata, il nostro mondo reso un deserto: aiutaci. Lo fai, ogni giorno, con la tua medicina, adesso abbiamo bisogno di conquistarci il bene: Allah è grande e ci guiderà».
«La prima cosa da fare è raccogliere i bidoni, portarli lontano, interrarli in pozzi profondi, distanti dalle falde acquifere e dai pascoli. Troverò gli indumenti adatti per effettuare il lavoro e il camion per il trasporto. Potremo contare sull’aiuto di Aban, lui è ingegnere, ci indicherà il luogo idoneo per sotterrare i fusti e troverà i mezzi per lo scavo. Dopo aver fatto tutto questo, ti darò il denaro, ti darò i dollari per comprare dei motori veloci, per acquistare le armi, dei Kalashnikov: potrete, così, buttare quei vecchi scoppi che avete raccolto. Devi informare gli altri, al villaggio, di non toccare niente, dovete impedire ai bambini di giocare con i fusti, di raccogliere il loro contenuto».
«Isseremo la bandiera rossa con la mezzaluna con su scritto Allah è grande e riconquisteremo la vita, la ridaremo al nostro popolo, Ayman».