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Queste parole di sapore oscuro

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Oggi, in tutto il mondo, ma soprattutto in Italia, si parla molto e si scrive molto, forse troppo (e si legge, invece, poco) nel senso che sono molti coloro che parlano e scrivono e costoro forse parlano e scrivono troppo.

Parlano e scrivono troppo, per il semplice motivo che la maggior parte di essi, ossia la maggior parte degli oratori e degli scrittori, non raggiunge, se non molto di rado, il fine per cui si parla e si scrive, il fine di ogni linguaggio: la comunicazione.

Per questo, nonostante, o proprio per questa inflazione del parlare e dello scrivere, è ancora valida la definizione della nostra epoca, come epoca dell’incomunicabilità. L’incomunicabilità, naturalmente, non è che un effetto, o, se si vuole, un sintomo, di una realtà intellettuale e spirituale che gli oratori e soprattutto gli scrittori di oggi manifestano: la mancanza di un’autentica esigenza di comunicazione o l’incapacità formale a realizzarla.

Non si comunica se non attraverso un linguaggio, che in senso particolare è la forma e in senso personale lo stile di un autore e quanto più sia la forma che lo stile sono, per quanto è possibile, chiari, scorrevoli, tanto più sono specchio lucido delle idee e del contenuto in genere.

Infatti, l’incomunicabilità del linguaggio parlato e scritto, si è determinata proprio da quando si è scisso il contenuto dalla forma o da quando la forma non si è adeguata più al contenuto, non ha seguito più l’assioma della cultura e ancor più dell’arte classica, sintesi di contenuto e forma.

L’incomunicabilità o l’oscurità di linguaggio è infatti un fenomeno prettamente contemporaneo, anche se non mancano alcuni, sia pure sporadici esempi storici.

Ma in passato, chi non rispettava i canoni formali di chiarezza, scorrevolezza dello stile, veniva subito definito come un rappresentante di stile oscuro, contorto, faticoso, noioso, non artistico e tanto meno poetico, oggi invece quasi si accetta passivamente l’oscurità di linguaggio, anzi la si propaganda, a volte, persino come profondità di contenuto o di intelligenza di pochi ammessi ad entrare nel sacro tempio della cultura e dell’arte.

E qui è invece l’equivoco perché se la cultura e l’arte sono un fenomeno naturalmente di élite, nel senso di non identificazione con ogni fenomeno di costume e comunicazione di massa, per cui ogni uomo di cultura e ancor più un artista è sempre colui che si separa o emerge con la sua personalità e la sua consapevolezza intellettuale, che si evolve, per scelta personale dal conformismo amorfo, è anche vero che deve permanere la comunicazione tra la cultura di élite e quella di massa.

Tra la cultura e la vita stessa. Altrimenti viene meno il fine stesso della cultura e dell’arte che è sublimazione, evoluzione, sviluppo cosciente dal generico, dall’amorfo, dall’impersonale della società di massa e del determinismo dei fenomeni naturali, ma è anche comunicazione con il pubblico e con il mondo.

Per questo i grandi scrittori, i grandi poeti, i grandi oratori, pur avendo raggiunto la perfezione della forma e le vette dello stile, sono riusciti a comunicare il loro linguaggio non solo ad un’élite di iniziati, ma in senso universale, al di fuori e al di sopra dei confini di spazio e di tempo. Per questo non c’è bisogno di iniziazione intellettuale per capire i dialoghi di Platone o le tragedie greche o le commedie di Plauto o il teatro di Shakespeare o i canti della Divina Commedia o i Pensieri di Pascal e neppure i saggi di Emerson.

Certo, si potrà obiettare, non si può pretendere da tutti la trasparenza di stile e quindi l’universalità dei capolavori, ma anche uno scrittore non eccelso raggiungerà il fine di comunicare col pubblico e, perché no, di non essere dimenticato dai posteri (v. Erasmo da Rotterdam con il suo Elogio della pazzia) se avrà uno stile personale, chiaro, scorrevole, che non annoi il lettore.