Renzi-Berlusconi, duello su Colle. Premier, non dai tu le carte Berlusconi non ci sta, siamo entrati in campagna elettorale
(ANSA) Duello all’ombra del Colle, brandendo l’arma delle elezioni, tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Alla doppia sfida lanciata dal Cavaliere che insiste per cambiare verso alla tabella di marcia (prima il Colle poi le riforme) e punta a essere determinante nella scelta del successore di Napolitano (“puntiamo su Giuliano Amato”), il premier Matteo Renzi ha risposto due volte picche con un affondo finale: “sì, Berlusconi sta al tavolo ma non dà più le carte”, ha scandito il premier per nulla disposto a farsi dettare l’agenda dal Cav. E forse pronto, pur di non farsi ingabbiare da mosse ricattatorie, a raccogliere una sfida sottesa, quella delle urne. Il clima sta cambiando rapidamente e così pure il “gioco” delle alleanze e delle fronde interne, e all’orizzonte evidentemente Renzi intravede vaste praterie.
Eloquente è la battuta sui 5 stelle , che dopo la “rottamazione” di Grillo potrebbero essere (almeno in parte) disposti e disponibili a fare le riforme con il Pd: “Magari, tutta la vita”, ha esultato Renzi al solo pensiero. Scosse di assestamento in corso dunque che non sono certo sfuggite a Berlusconi il quale ha detto chiaro e tondo che ormai siamo in campagna elettorale e, a conferma di ciò, ha rispolverato i cavalli di battaglia e tutto l’armamentario azzurro per “riconquistare i delusi e riportare Fi al governo”. Ma anche Renzi non ci sta a farsi mettere con le spalle al muro: l’elezione del Capo dello Stato – ha spiegato – non blocca affatto le riforme e anzi, portarle a compimento è l’unico modo per dare un senso alla legislatura e al sacrificio del Bis di Napolitano.
“Sicuramente non si possono tirare i remi in barca sulle riforme” solo “perche’ potrebbe accadere qualcosa su un altro fronte, ha argomentato, quindi “andiamo avanti”. E comunque, Napolitano “per ora non si è dimesso”, e quando accadrà, “tutti gli dovranno dire un grazie” grande quanto una casa. Ma intanto i due temi caldi che in alcuni passaggi tendono a incrociarsi sono e restano il Quirinale e l’eventuale voto anticipato, con l’ipoteca della legge elettorale da mesi in panne. Berlusconi sembra convinto che si andrà al voto anzitempo (in primavera con il Consultellum oppure poco dopo con l’Italicum) e forse su questa tempistica, il premier potrebbe anche vederla allo stesso modo. Ecco perché, nel dubbio – è la convinzione in Fi – Renzi continua a spingere sulla riforma elettorale anche per avere un’arma in più (e trovarsi pronto nell’emergenza). Ha spiegato che il timing potrebbe riservare delle sorprese anche se ormai per il voto finale dell’aula se ne riparlerà dopo le festività natalizie: “Entro Natale approderà in Aula al Senato, ma non ci sarà ancora il voto finale”.
Minoranza Pd in trincea ma Renzi, non c’è altra sinistra
Premier, calo consensi fisiologico. Oggi nuovo match direzione
di Michele Esposito
Astensionismo ed emergenza sociale non viaggiano sullo stesso binario e non sono l’indizio di un campo aperto per una formazione a sinistra del Pd. Il premier Matteo Renzi, alla vigilia di una Direzione che, al pari delle ultime, si preannuncia infuocata e disseminata da trappole, spariglia ancora una volta le carte dei dissidenti, smontando alla base i punti di critica mossi verso di lui. Non c’è spazio, al momento, per una sinistra alternativa al Pd che, oggi, come unico contraltare ha solo la rabbia della destra, è il warning lanciato dal premier-segretario a quella fetta di Dem che “fa le pulci al governo” e che, domani, tornerà a farsi sentire. Renzi sa bene che, in vista delle sfide chiave che segneranno il passaggio dal 2014 al 2015 – riforme costituzionali, legge elettorale prima dell’elezione del nuovo capo dello Stato – qualsiasi frattura nel Pd potrebbe essere fatale. Ed anche per questo, alla vigilia di una Direzione sollecitata soprattutto dalla minoranza dopo l’astensionismo shock in Emilia-Romagna, il premier-segretario va in tv e difende, punto per punto, i quasi 300 giorni del suo governo, a partire da quel calo di consensi registrato dai sondaggi rispetto a periodo pre-Europee. E’ un calo “che non fa male, nel senso che è naturale, quando provi a cambiare delle cose”, si fa scudo il premier sottolineando una volta ancora come l’astensionismo sia un dato sui cui “riflettere” ma “secondario” rispetto alla vittoria del Pd e che non va identificato con “il motivo dell’infelicità del Paese”.
Parole che il presidente-segretario indirizza a quella ‘squadra’ di gufi che, rispetto all’inizio del suo mandato si è fatta di certo più copiosa, ospitando ormai in maniera permanente i sindacati e una fetta della Sinistra Dem. Ma alla vigilia di uno dei passaggi più delicati della legislatura, Renzi non ammette alcuna deroga sul percorso delle riforme avvertendo anche chi, come spiega in un’intervista a La Repubblica, “minaccia la scissione” un giorno sì e l’altro pure: “l’alternativa non e’ un’altra sinistra, ma la destra di Le Pen”. Difficile, tuttavia, che il nuovo affondo di Renzi plachi i malumori della minoranza. O, almeno, di una parte di essa. Perché se ieri, in una riunione con il capogruppo Roberto Speranza e 70 deputati, Area Riformista ha ribadito una linea di netta autonomia dall’imprinting renziano ma di assoluta responsabilità rispetto a un governo targato Pd, le aree vicino a Gianni Cuperlo o Pippo Civati, domani torneranno alla carica. Con Stefano Fassina che ribadisce la richiesta di un referendum sulle politiche di Renzi tra i circoli Pd che potrebbe creare più di un grattacapo al premier-segretario. “Rifiutare il referendum vuol dire non essere interessati alla voce di centinaia di migliaia iscritti ed elettori”, attacca Fassina ponendo ancora una volta il vero punto di frattura tra la sinistra Dem e il segretario: “parte del mondo Pd non condivide la sua virata”. Parole che domani risuoneranno una volta ancora in una Direzione criticata anche nel metodo – tempi rapidi, streaming – dai dissidenti e che potrebbe allontanare ulteriormente una parte dei Democrat dal Nazareno. Con conseguenze imprevedibili: la tenuta del governo, in Parlamento, resta legata a doppio filo con quella del Pd.