Restare o andare via? Riflessioni sugli emigranti del nuovo millennio
di Natalia Gelonesi
Chista è a triste storia i l’emigranti du dumila
chi ndavi i pigghja u trenu i busca chocchj lira
non porta cchjù a valigia fatta i cartuni
mò ndavi u computer o postu di salumi.
E poi è istruitu è puru lauriatu
ma nte città du nord è sempi l’emigratu
Questa è la triste storia degli emigranti del nuovo millennio, cantavano anni fa gli “Invece”, storico e rivoluzionario gruppo reggae bovalinese. Ed è un po’ la storia di tanti di noi, che per caso, necessità o volontà si sono trovati a lasciare la propria terra.
É una storia che cammina sul filo spinato, diventando spesso campo di battaglia per ideologie contrapposte, ma che in questo momento sentivo di condividere. Alcune riflessioni le ho in testa da tempo e, oggi, ad aprirmi la strada su cui farle scorrere, è stato il post di un’amica che lavora in Svizzera. Una riflessione dalle tenere sfumature di un coming out, un plauso ai colleghi rimasti a lavorare al Sud “contro i mulini a vento”, una critica alla propria decisione di andare definitivamente via, da lei stessa giudicata come “troppo facile”.
Ho sempre ammirato chi ha preso le valigie ed è andato lontano per fare questo lavoro, soprattutto all’estero. Io non ne ho mai avuto il coraggio. Ma è la scelta migliore in assoluto se questa professione la vuoi fare in modo dignitoso. La sanità pubblica italiana, e soprattutto quella meridionale, è un sistema destinato ad implodere per infinite lacune e criticità.
Lavorare in un ospedale del Sud, soprattutto di periferia, vuol dire sapere di dover affrontare ogni giorno difficoltà enormi, essere consapevoli che le paure più grandi non sono quelle di fallire una diagnosi e gestire casi difficili, ma di avere i mezzi per risolverle, avere coscienza che le cose più semplici diventano ostacoli insormontabili nel macchinoso ingranaggio della burocrazia e della disorganizzazione. Significa lavorare tra ritmi disumani e rischi enormi senza nessuna possibilità di crescita professionale.
Io dico sempre che, al di là di tutto, la buona Sanità sono i singoli che la fanno, spesso a proprie spese e senza riconoscimento alcuno. Trattenendosi oltre l’orario di lavoro, caricandosi spesso di compiti lasciati da chi ritiene giusto fare solo il “suo”, cercando di ovviare con grande sacrificio ai pesanti vuoti organizzativi. Non è un mestiere come gli altri, questo. Non è un posto dove scattate le sei ore e 20 strisci il badge e torni a casa. É un posto dove qualcuno ti ha affidato le sue speranze. E allora cerchi, dove puoi, queste speranze di non deluderle, spesso facendoti carico di mansioni o di problemi che non sono i tuoi. Una volta scrissi che se nell’ospedale dove lavoravo fosse venuto Gino Strada, ci avrebbe mandato subito i fondi di Emergency.
La differenza tra queste strutture e quelle delle zone di guerra è che lì l’aiuto dei sanitari viene capito e apprezzato, qui inveiscono contro di te per carenze di cui non sei responsabile, ma che ricadono inevitabilmente su chi poi si trova a interfacciarsi e renderne conto. Ad esempio, può capitare, semplicemente perché indossi un camice e stai attraversando il corridoio dell’Ospedale, di sentirti ripetere un “Dovete morire tutti”, carico di rabbia, da qualcuno che ha letto male la sua prenotazione, non proprio chiara, sbagliando edificio. Ti trovi ad avere a che fare con teste un po’ più “calde” che altrove, anche se i fumantini ci sono dappertutto, ma a certe latitudini sembra che arroganza ed atteggiamenti “esuberanti” siano maggiormente tollerati. Allora ti chiedi chi diavolo te la fa fare.
Poi arriva quell’età della vita in cui inizi a interrogarti sul senso di tante cose e pensi che se questo lavoro lo devi fare, se un contributo alla società lo puoi dare, se sei così fortunata da svolgere una professione di aiuto per la comunità, perché pensare di andare altrove e non farlo nella tua terra? Anche se le difficoltà sono moltiplicate per mille e anche se pare che questa regione sia così accondiscendente nel lasciarci andare ma altrettanto riluttante a riprenderci.
Meglio partire o meglio restare allora? Restare su questa barca per non farla affondare o scegliere la fuga verso isole di tranquillità, verso la possibilità di realizzarsi?
Non c’è un meglio o peggio, ci sono i “pro” e i “contro” come in tutte le scelte, cose che si acquistano e cose a cui si rinuncia. Talora non c’è possibilità di scelta: alcune decisioni sono obbligate, andare via diventa l’unica strada possibile. In quelle ideali valigie di cartone adesso ci sono sogni, speranze, ambizioni, in quei barattoli di vetro si cerca la dolcezza come antidoto all’amarezza della lontananza. La mia ammirazione per chi è andato via facendo grandi cose è immensa, ma lo è ancor di più per chi è rimasto e ha lottato. Perché, al di là di tutto, c’è una cosa terribile e potente che si chiama “senso di appartenenza”, che è un po’ come l’amore, arriva dritto al cuore e poi va in circolo. E non si puo’ spiegare.