Scilla Fest 2016. L’incanto di Itaca Trionfa la poliedricità del teatro
Voglio iniziare questo racconto con le parole di Barbara Innamorati, di ArtistiAquilani onlus, che ha incontrato il Teatro Proskenion proprio a Scilla: “Il teatro ha la grande dote di aprire le sue porte ad ogni viandante disposto a sperimentare quella poliedricità tipica della sua natura e che proietta sé stessa anche nel concetto di viaggio, parola anch’essa multiforme e difficile da ingabbiare.”
Per il secondo anno consecutivo il nostro “viaggio” riparte da Scilla, comune che ha fortemente voluto e sostenuto lo Scilla Fest, rassegna internazionale di teatro, musica e danza organizzato dal Teatro Proskenion con la direzione artistica di Vincenzo Mercurio, Nino Racco, Giovanni Gangemi e Nando Brusco.
Le note della Piccola Orchestra Popolare c.o. Panzillo, unite al carisma e alla superba voce della “leonessa” Nuccia Paolillo, riempiono Piazza San Rocco nella serata inaugurale del Festival.
La qualità viene premiata: una piazza gremita di famiglie e anziani signori e signore del paese hanno preso posto per godersi un magnifico concerto di musica tradizionale napoletana.
Ciò che colpisce nel lavoro dei Panzillo è la ricerca filologica che sta dietro ogni pezzo che propongono: ogni brano viene, infatti, eseguito nel rigore degli stili e delle originarie intenzioni dell’epoca, pur non rinunciando alle loro personali ma rispettose interpretazioni.
Quest’anno grazie all’ottima relazione che si è instaurata con la parrocchia S. Maria dell’Arco di Bovetto-Croce Valanidi (RC) e al progetto Sguardi di strada (selezionato nell’ambito del bando bando Funder 35 promosso da 18 fondazioni e, da quest’anno, anche nel Mezzogiorno grazie a Fondazione CON IL SUD) è stata fatta una scelta importante: svolgere una parte delle attività presso il bene confiscato gestito dall’Osservatorio sulla ndrangheta coinvolgendo l’intera comunità del quartiere di Croce Valanidi. I giovani hanno partecipato alle attività e le madri hanno preparato una parte delle cene presso la sala della parrocchia: un modo per contribuire al buon esito della manifestazione e per barattare buon cibo con spettacoli di teatro di strada.
Il programma, quindi, è stato sapientemente costruito per far sì che la mattina si svolgessero le attività laboratoriali presso il Castello di Scilla e che i pomeriggi a Croce Valanidi fossero dedicati alla condivisione delle esperienze degli artisti che hanno partecipato al Festival, per poi ritornare la sera a Scilla ed assistere agli spettacoli musicali e teatrali.
Il lunedì mattina al Castello ci attende Valerio Apice. Pulcinella fa il suo gran ritorno al “paese”.
Chiunque si sia avvicinato al Teatro Proskenion avrà sentito parlare del “Pulcinella a pezzi”, spettacolo ispirato alla Commedia dell’arte nato da un’idea di Nicola Savarese, Mirella Schino e Ferdinando Taviani. Quest’ultimo ha ben descritto alcuni elementi fondanti di questo modo di far teatro dove “la differenza tra spettacolo e prove scompare, ma non come avviene di solito, e cioè che le prove siano già uno spettacolo – ma all’opposto: nel senso che lo spettacolo è sempre nulla più d’una prova”. Quello spettacolo, a cui hanno per tre anni contribuito tutti gli artisti del gruppo, è stato, come ricorda Pierluigi di Stefano con le sue evocative parole: “distrutto, frantumato e reinventato dalle sue stesse ceneri”.
Proprio lì, nelle sale del castello di Scilla.
Valerio si guarda attorno e nelle sue parole sentiamo l’emozione di quando si mise la maschera per la prima volta, di quando Pulcinella cominciava a prendere forma. E lo immaginiamo mentre analizza ogni minimo gesto, per farlo proprio e dominarlo per trovare alla fine “il suo Pulcinella”, personaggio che ancora oggi lo accompagna nel suo percorso artistico. Oggi Valerio dirige l’Associazione- Laboratorio Isola di Confine assieme a sua moglie Giulia Castellani e sta realizzando il suo sogno di costruire il “Villaggio del teatro”, un teatro che vive e si nutre del rapporto con le scuole e con le istituzioni del territorio.
Incontriamo, successivamente, Fabio Butera, artista di Lamezia Terme, che ci tiene a precisare che il Teatro “è solo quello in maschera” e ci parla dell’innovatività e testardaggine del lavoro di Meyerchold mentre estrae dalla valigia i suoi gioielli, le maschere del teatro NO e quelle della commedia dell’arte, e lentamente le sveste dai foulard che le avvolgono per mostrarci come siano vive, come ci parlino, come cambia la voce e il corpo di un attore quando indossa la maschera creando con gli spettatori l’“incanto sottile”.
Il lunedì sera ci facciamo trasportare da voci, musiche e immagini del reading “Da questa terra” a cura del Gruppo artistico Labyrintho di Reggio Calabria. Bellezza, contraddizioni, tradizioni calabresi unite a sentimenti di nostalgia, malinconia, rabbia e amore contraddistinguono i brani scelti dal gruppo, “Da questa terra” non accenna a nessun discorso ideologico, sociologico, racconta, semplicemente quel che i poeti sanno fare da secolo: dire verità meglio e più della protesta politica, meglio dei cortei con alla testa chi si ribella ad ogni potere.
Il Gruppo Artistico Labyrintho nasce nel 2008 ed è composto da Vincenzo de Salvo, Carlo Ernesto Menga, Cinzia Aurelia Messina, Daniela Pericone, Caterina Scopelliti (voci recitanti) e Tania Filippone (audio e video). In questi anni ha realizzato letture sceniche che interpretano grandi temi come la follia, la violenza dell’uomo sull’uomo, la povertà, il confronto tra le religioni, l’enigma della morte.
Il martedì pomeriggio gli amici dell’Associazione Nuova Carini – Giuseppe Zito, Davide Torre e Fabio Costa – ci raccontano la loro esperienza di resistenza culturale. Attraverso foto e video-reportage ci portano a scoprire i messaggi che vogliono lanciare con la loro arte: inclusione, rispetto per l’ambiente, impegno civico, il tutto avvolto da una tagliente ironia e dal desiderio di incontrare persone motivate con cui intraprendere nuove avventure artistiche. Anche in questa occasione hanno saputo regalarci scatti d’autore che ritraggono alcuni dei volti e dei momenti più significativi del Festival.
Poi tocca a Giulio Votta, di ArtistiAquilani onlus, parlarci di come ha intrapreso il suo percorso teatrale, dal teatro ragazzi fino alla scoperta e la faticosa ma appassionante scelta di fare teatro di strada. Anche per lui Scilla ha rappresentato un punto di non ritorno. Dalle sue parole traspare quanto la sua vita sia profondamente intrecciata con la dimensione artistica tanto che in alcuni momenti non riusciva più a distinguere Giulio da “Pongo”. Un’arte, la sua, fatta di impegno nel sociale, di un “fare ridere” che vuole andare a riparare le ferite più profonde di terre e anime terremotate. Il teatro può divenire talune volte destabilizzante poiché inevitabilmente va a toccare le corde più intime e delicate della personalità. Mirella Schino a tal proposito dice “È come se facessero arte sull’orlo dei burroni. Davanti ai burroni, loro per primi hanno sgranato gli occhi. L’arte e il mestiere vengono dopo. Burroni sociali e personali. Se non si percepisce questo odore delle macerie – sottile, segreto, ma essenziale – del Teatro Proskenion non si capisce niente.”
Ecco perché ci stringiamo attorno a Giulio, che con la sua voce profonda e rotta dall’emozione, ci recita la poesia di Totò dove scorgiamo tutte le domande, le risposte e i desideri più intimi dei teatranti al margine: “……..C’è tanta gente che si diverte a far piangere l’umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla; manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri.”
Il Festival 2016 verrà anche ricordato come il festival dei cantastorie. È nata addirittura una sorta di competizione a chi sarebbe il primo e migliore cantastorie calabrese.
E allora non poteva mancare uno spettacolo musicale in omaggio a Rosa Balistreri dal titolo “L’ultima cantastorie” con Manuela Cricelli, Peppe Platani e Vincenzo Oppedisano. La ricerca di Manuela trae spunto dalla vita di Rosa Balistreri, indimenticabile artista del movimento folk degli anni ’70, vera interprete della musica popolare di Sicilia e si ispira ad un articolo scritto da Maria Ficara nel 2003 che alterna versi di canzoni a momenti fondamentali della vita dell’artista, a sottolineare quanto, col suo canto, Rosa parli, ancora oggi di una moltitudine di donne e uomini.
Mercoledì sera, poi, ci facciamo trasportare dalle vibrazioni della voce di Matilde Politi nel suo spettacolo “A Tirannia”. La cantastorie ci propone il suo variegato repertorio che va dalle canzoni d’amore, alle ninne nanne della tradizione orale siciliana ad una vicenda di odierna lotta alle sopraffazioni: la battaglia NO MUOS.
È un teatro che produce una trasformazione nel mondo esterno. Non solo chi è in scena ma anche lo spettatore partecipa allo spettacolo con tutto il corpo. E allora poco importa se non si comprende il significato di tutte le parole in dialetto siciliano. Il messaggio che vuole portare Matilde, il suo “teatro politico” arriva forte e chiaro. “La storia nostra è scritta cu lu sangu
di cu ha luttatu cu curaggio e ‘ncegnu, sutta la china ‘un si calau ddu juncu e contra la tirannia sempri appi sdegnu.”
Con la sua ricerca vocale, il ritmo della chitarra, le sonorità mediterranee, il tintinnio del sonaglio alla caviglia e la forza dei personaggi femminili che ci fa conoscere, ci ipnotizza per più di un’ora nella sala del Teatro Primo di Villa San Giovanni, realtà che ha appoggiato lo Scilla Fest.
Quando, il giorno dopo lo spettacolo, Nino Racco ci presenta il lavoro di questa determinata e irriverente cantastorie siciliana, percepiamo una forte stima reciproca sia pur nella diversità del loro modo di interpretare la figura del “cantastorie”. Nel dialogo tra i due artisti riviviamo la storia del teatro dagli anni ’70, e le scelte difficili di una donna che confessa di litigare tutt’oggi con la madre per aver scelto di fare l’artista, la cantastorie. Voleva partire per l’Irlanda con la sua chitarra e andare a suonare per locali, ma sua madre, terrorizzata all’idea della partenza della figlia, trovò la locandina del centro di sperimentazione teatrale di Pontedera, e Matilde dovette arrendersi. Fu lì che incontrò Jerzy Grotowski, il suo grande maestro che era convinto che il teatro dovesse mettere al centro l’attore con il suo corpo e la sua voce senza aiuti, unicamente con l’esperienza viscerale con il pubblico. L’incontro con Matilde finisce sulle note di una canzone di Joan Baez. Suo figlio seduto a terra in prima fila non le stacca gli occhi di dosso e noi vorremmo continuare ad ascoltarla suonare ancora per ore e ore.
Quella sera stessa gli artisti del festival e i ragazzi di Croce Valanidi mettono in scena il primo spettacolo –scambio “Storie, canti e paradossi” presso il parco dove ha sede l’Associazione “In…….cammino”. Uno spettacolo articolato e dove ognuno ha dato tutto sé stesso: dai ragazzi sui trampoli alle bolas, dal dolce stupore per le magie di Mr. Mu (il clown interpretato da Emilio Ajovalasit) al mangiafuoco-presentatore (Giulio Votta), dai minuziosi movimenti, suoni e dolci espressioni del mimo (Martin Curletto) fino alla storia della Baronessa di Carini (interpretata da uno sfavillante Nino Racco) e alle angeliche voci delle “Quattro A”. E come in ogni festa “calabrisi” che si rispetti, il mastro di ballo del quartiere ha, infine, dettato le regole di una lunga e scatenata tarantella a ritmo di tamburi e organetti.
Il giovedì pomeriggio è dedicato alle esperienze di Giovanni Gangemi e di Nando Brusco.
Nando è un percussionista di Belmonte Calabro, uno che i tamburi li fa parlare attingendo all’inquietudine che rappresenta il pozzo profondo della creatività, quell’abisso dove si perde la sua immaginazione e dove ritroviamo memorie antiche ma che tanto hanno da insegnare alle nuove generazioni. Un talento che Enzo Ruffolo aveva riconosciuto in lui fin da quando era una piccola peste e quasi per gioco aveva provato a suonare davanti a lui uno di quei tamburelli colorati che solitamente si appendono ai muri. “Lu poti sonari”, lo puoi suonare.
È visibilmente emozionato mentre ci racconta di come è nato il suo primo CD, di quanto sia stato importante per lui il sostegno del Teatro Proskenion e di alcuni suoi cari amici tra cui Luca de Simone, il percussionista che ne ha curato la prefazione e Fabrizio Basciano, giornalista de Il Fatto Quotidiano che ne ha curato di recente una recensione.
“Tamburo È voce” ci fa navigare tra ciclopi, pescatori, rivendicazioni di contadini e battiti di una terra che non smette di “sanguinare” ma che ha tanta voglia di riscatto, di ritrovarsi e di ripartire nell’arte, con l’arte.
Giovanni Battista Gangemi, invece, è un danzatore, insegnante di danza, esperto in danceability, coreografo e counselor rogersiano gestaltico di Reggio Calabria.
Giovanni è molto più che un danzatore, è un professionista che insegna alle sue allieve ad amare la danza, a far sì che in ogni singolo passo mettano un pezzo delle loro anime. Insegna loro ad amarsi e ad andare oltre l’immagine stereotipata della ballerina anoressica e mera esecutrice di una volontà esterna. Le sue ragazze imparano che nella danza la disciplina è fondamentale: la regola numero uno è “soffrire in silenzio”, ma dai loro sorrisi traspare l’amore per la danza e per la vita che come educatore non smette nemmeno un attimo di trasmettere loro.
Con orgoglio Giovanni afferma che ognuna di loro, approfondisce il significato dei testi delle canzoni su cui preparano le coreografie. Conoscono la musica e suonano strumenti musicali, e questo le aiuta moltissimo nel lavoro di improvvisazione. Quando Nando inizia a suonare, le danzatrici sanno come dar forma alla voce del tamburo, come farlo danzare assieme a loro.
Durante l’incontro, oltre a raccontarci la sua esperienza, Giovanni danza per noi, e per la prima volta anche lui indossa la maschera e ci regala una straordinaria performance che vede protagonisti lui e Giulio Votta. La professionalità sta nella continua sperimentazione, nel superamento dei propri limiti e nella generosità di mettersi continuamente in gioco per stupire sé stessi e gli spettatori.
La sera in piazzetta Spirito Santo ci aspettano la fisarmonica e il cartellone di Daniele Mutino, un altro cantastorie. Occhi grandi e azzurri e capelli bianchi coperti da un cilindro nero. Nel suo lavoro “San Giorgio e il Drago” si intrecciano la Leggenda Aurea e modernità. Parte dalla nota vicenda per raccontarci storie moderne di abusi e sopraffazioni che si susseguono nelle periferie romane piene di “draghi avvelenatori e divoratori di futuro”. Li vediamo nella discarica di Malagrotta e nel campo rom dove una coppia di giovani rom, Sascia e Lili muoiono abbracciati mentre il fuoco distrugge la loro abitazione. Mentre la tragedia si consuma nelle note della fisarmonica, tra le nostre mani scorre il ritratto dei due ragazzi. Sorridevano, sognavano un futuro diverso, una vita senza guai.
Il drago alla fine viene ucciso, ma la sensazione di liberazione non riesce a vincere la rabbia per tutti quei draghi che riempiono quotidianamente le cronache dei nostri giornali.
Il giorno dopo sono Preziosa ed Emilio Ajovalasit a condividere con noi le emozioni dei primi dieci anni di R-esistenza del Teatro Atlante di Palermo, dieci anni che nel mese di ottobre hanno deciso di festeggiare con il Teatro Proskenion e con tutti i gruppi teatrali che hanno viaggiato con loro in questi anni.
Mirella Schino dice “Se qualcosa caratterizza la rete di relazioni teatrali e culturali che si intreccia attorno a Scilla, questo qualcosa potrebbe definirsi arte di scavalcare i confini, negare o sfumare i contorni.” E Preziosa ed Emilio di confini ne hanno superati molti. Persone che nel teatro hanno creduto fino in fondo, che hanno “scavalcato” i muri del carcere e hanno lavorato con scuole di ogni ordine e grado, migranti, ragazzi dei quartieri a rischio di Palermo coinvolgendo musicisti e teatranti da ogni parte d’Italia e oltre. È un teatro che ha oltrepassato mille ostacoli e che grazie alla loro tenacia in questi anni è cresciuto nutrendosi delle reti di scuole e associazioni che li hanno appoggiati e dell’affetto del loro pubblico. Un lavoro enorme basato sulle contaminazioni artistiche ed umane. E tutto ciò traspare dai loro sguardi, dall’entusiasmo con cui parlano del loro lavoro.
Le due serate finali sono state dedicate agli spettacoli di strada. Un lavoro in cui si sono susseguiti gli interventi degli artisti con la straordinaria interpretazione della leggenda di Colapesce da parte di Nino Racco accompagnato dal tamburo di Nando Brusco e dalla fisarmonica di Daniele Mutino, le performance del clown Vincenzino (il nostro Vincenzo Mercurio), il gruppo dei trampolieri e giocolieri, il gruppo del mimo (preparati da Martin Curletto – poliedrico e generoso attore e direttore della Compagnia teatrale La Secreta Cia di Barcellona) e le due pièce realizzate dai partecipanti. Il gruppo che ha lavorato con Emilio e Preziosa ha messo in scena una performance con le maschere, liberamente ispirata alla storia de “Il lupo e l’agnello” L’altro gruppo guidato da Nino Racco e Martin Curletto ha messo in scena una performance che voleva rappresentare l’assurdo viaggio della vita e che si è chiusa con un omaggio al viaggio di Ulisse: “Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo sulla strada.”
Durante la parata per le vie di Scilla, mentre Vincenzo Mercurio passa davanti alla prima sede del Teatro Proskenion e saluta vecchi amici, ci vengono alla mente le parole di Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”
Com’è andata? Bene. Molto bene. Ma come fa notare Nando Taviani: “L’importanza di un’esperienza si vede dalle sue conseguenze, non dalle parole con cui la vivisezioniamo.”
E allora come Ulisse noi proseguiamo il nostro vagabondare, ci abbondoniamo al rumore incessante delle onde e, senza ascoltare le Sirene, vi diamo appuntamento all’anno prossimo. Scilla Fest 2017. Arte, emozioni, vita.