“Si faccia chiarezza sui beni confiscati alla mafia” Lo dichiara Antonio Giangrande
“Cose nostre: per un uso sociale dei beni confiscati alla mafia” recita il
titolo di un convegno tenuto il 12 febbraio 2015 a Manduria nel tarantino e
promosso dai Verdi e dal movimento Giovani per Manduria. A relazionare sul
tema son venuti da Mesagne, nel brindisino, quelli di “Libera” ed erano
presenti soggetti istituzionali di Manduria e di Mesagne.
“Cose nostre” si affermava nel titolo del convegno, mutuata dallo spot
nazionale di “Libera” come se di una espropriazione proletaria si trattasse.
La Gazzetta del Mezzogiorno e Manduria Oggi ha dato ampio risalto
all’evento.
Già nel marzo 2010 si leggeva su La voce di Manduria che “Il comune bandirà
una gara per l’affidamento alle associazioni di tutti i 25 beni (terreni ed
immobili) confiscati alle due famiglie mafiose Stranieri e Cinieri di
Manduria. I primi tre lotti riguardano l’ex ristorante Tutti Frutti ed altre
due villette a San Pietro in Bevagna. L’associazione contro le mafie,
Libera, coordinerà i progetti finanziati dalla Regione Puglia.
Già da allora “Libera” voleva mettere le mani sui beni manduriani, non
riuscendoci.
Si legge su Manduria Oggi del 3 dicembre 2014 «Quando la Regione Puglia,
nel 2010 varò il progetto “Libera il Bene”, una iniziativa che promuoveva,
con finanziamenti, il recupero e il riuso dei beni confiscati, nessun ente
locale della provincia di Taranto partecipò, perdendo così una occasione
preziosa» ricorda Anna Maria De Tomaso Bonifazi, referente per la provincia
dell’associazione “Libera”. «Più volte “Libera”, fin dal 2004, ha chiesto di
conoscere lo stato degli immobili confiscati sia al Comune di Taranto che a
quello di Manduria, ricevendo risposte evasive. Eppure proprio a Manduria,
in un periodo di commissariamento del Comune, il Prefetto di Taranto e i
referenti nazionali di “Libera” riuscirono finalmente a mettere a bando i
beni confiscati. Ma ci accorgemmo ben presto che si trattò di una vittoria
di Pirro, perché, con l’elezione del nuovo Consiglio Comunale, il sindaco
che si insediò annullò tutto e, di fronte alle rimostranze di “Libera”, non
seppe fornire spiegazione alcuna, se non rifacendosi ad una decisione del
segretario generale del Comune».
Vorrei, se possibile, come presidente nazionale della “Associazione Contro
Tutte le Mafie”, associazione antiracket ed antiusura riconosciuta dal
Ministero dell’Interno, in quanto iscritta presso la prefettura di Taranto
dal 2006, ma non facente parte della sfera di Libera, contribuire a far
chiarezza su un dato, tenuto conto che nei convegni si devono sentire tutte
le campane e fare compendio, specialmente se in quel convegno di diritto si
avrebbe avuto interesse a prendere la parola. Non foss’altro per spirito
territoriale, avente la sede legale a 10 km da Manduria. E non è per spirito
polemico, ma per ragioni di verità, per non far passare dei principi non
esatti ma ritenuti come tali, in virtù dell’ampia visibilità che a “Libera”
si dà. Opinioni secondo scienza e coscienza forte delle mansioni nazionali
che ricopro.
Si spera che la mia precisazione abbia lo stesso risalto che si è dedicato
ai presenti al convegno.
Descrizione del Fenomeno, si legge sul sito della Commissione Nazionale
Antimafia. Uno degli elementi fondamentali per sconfiggere le mafie è
procedere al loro impoverimento confiscando loro tutti i beni e i patrimoni
acquisiti mediante l’impiego di denaro frutto di attività illecite. Si
tratta di un principio fondamentale che Pio La Torre, segretario regionale
del partito comunista in Sicilia e parlamentare della Commissione antimafia,
ucciso a Palermo il 30 aprile 1982, capì in modo molto chiaro. Infatti, la
legge che successivamente introdurrà nel codice penale italiano l’articolo
416-bis e altre norme, denominate misure patrimoniali, che consentono la
confisca dei capitali mafiosi, porta il suo nome insieme a quello
dell’allora Ministro dell’Interno, Virginio Rognoni. I beni dei quali sia
stata accertata la proprietà da parte di soggetti appartenenti alle
organizzazioni mafiose vengono confiscati, vale a dire sottratti
definitivamente a coloro che ne risultano proprietari. Questi beni sono
rappresentati da immobili (case, terreni, appartamenti, box, ecc.), da beni
mobili (denaro contante e titoli) e da aziende. Secondo quanto previsto
dalla legge 7 marzo 1996, n. 109, una legge di iniziativa popolare sostenuta
dalla raccolta di un milione di firme da parte dell’associazione Libera, i
beni immobili possono essere usati per finalità di carattere sociale. Questo
significa che essi possono essere concessi dai comuni, a titolo gratuito, a
comunità, associazioni di volontariato, cooperative sociali e possono
diventare scuole, comunità di recupero per tossicodipendenti, case per
anziani, ecc. Nelle regioni meridionali, ad esempio, sono sorte delle
Cooperative sociali di giovani che coltivano terreni confiscati alle
organizzazioni mafiose producendo pasta, vino e olio. In base alle
previsioni della legge finanziaria 2007 (Legge 27 dicembre 2006, n. 296,
comma 201-202) i beni confiscati possono essere assegnati anche a Province e
Regioni. I beni immobili non assegnati ai comuni sono acquisiti al
patrimonio dello Stato e vengono utilizzati per finalità di giustizia,
ordine pubblico e protezione civile. I beni mobili vengono trasformati in
denaro contante, il quale viene successivamente depositato in un apposito
fondo prefettizio. Le aziende vengono vendute, date in affitto o messe in
liquidazione. Il ricavato viene versato nel fondo prefettizio. La
Cancelleria dell’Ufficio giudiziario provvede a comunicare il provvedimento
definitivo di confisca ai seguenti soggetti: l’Ufficio del territorio del
Ministero delle Finanze, il Prefetto, il Dipartimento della Pubblica
Sicurezza del Ministero dell’Interno. L’Ufficio del territorio una volta
stimato il valore del bene da assegnare sente il Prefetto, il Sindaco,
l’Amministrazione ed entro novanta giorni formula una proposta finalizzata
all’assegnazione del bene. È il Direttore Centrale del Demanio che entro
trenta giorni emette il provvedimento di assegnazione.
Bene. Su tutti i territori italiani operano delle associazioni distribuite
per competenza provinciale ed iscritte presso le rispettive Prefetture.
Dichiarazione, relazione e documentazione comprovante l’attualità dei
requisiti e delle condizioni prescritte di cui agli artt. 1 e 3 del
regolamento (DM 220 del 24/10/2007) recante norme integrative ai regolamenti
per l’iscrizione delle associazioni e organizzazioni previste dall’art. 13,
comma 2, L. 44/99 e dall’art. 15, comma 4, L. 108/96.
Associazioni antimafia che operano per assistere le vittime di estorsione ed
usura, molte delle quali non fanno capo a Libera, che, spesso, presso la
CGIL fa eleggere domicilio alle delegazioni locali.
Quindi sfatiamo un fatto: i beni confiscati non sono roba loro, ossia di
“Libera”.
Un’altra cosa. I beni già sequestrati in odor di mafia, si confiscano solo a
sentenza di condanna definitiva. In caso contrario tornano ai legittimi
proprietari. Ma di altre questioni nei convegni di cui si parla ci si
dovrebbe occupare: Ossia denunciare pubblicamente quello che la gente non sa
circa gli interessi economici e politici che ruotano intorno ai beni
sequestrati, prima, ed eventualmente confiscati, poi…
Che fine ha fatto la “robba” dei boss? L’ Antimafia al lavoro sui dossier.
«Da più parti riceviamo denunce che rivelano la persistenza di molte ombre
nella gestione dei beni confiscati alla mafia», ha spiegato Nello Musumeci,
presidente della commissione regionale (siciliana ndr), che sta analizzando
l’utilizzo delle ricchezze sottratte a Cosa nostra, scrive Giuseppe Pipitone
su “L’Ora Quotidiano”. «Dopo avere completato le trascrizioni – annuncia il
presidente dell’Antimafia – provvederemo a trasmettere il documento anche
all’autorità giudiziaria. Abbiamo riferito al prefetto (Postiglione ndr) che
in un anno e mezzo la commissione ha raccolto il grido di allarme di
giornalisti, amministratori, imprenditori e rappresentanti dei lavoratori
che denunciano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni tolti
alla mafia». «In alcuni casi – ha spiegato Musumeci – si tratta di denunce
di vere e proprie incompatibilità, situazioni preoccupanti. In altri casi
abbiamo riscontrato la concentrazione di molti incarichi nelle mani di un
unico amministratore e tentativi di favorire società e studi professionali».
Palermo è la capitale della ”robba” dei boss. Il quaranta per cento di tutti
i beni confiscati a Cosa Nostra, infatti, si trova nel capoluogo siciliano.
Ed è proprio da Palermo che arriverà il primo dossier con le anomalie sulla
gestione degli immobili confiscati alla mafia. Un patrimonio imponente: più
di diecimila immobili, mille e cinquecento aziende, più di tremila beni
mobili. Numeri che fanno dell’Agenzia per i beni confiscati, creata nel 2009
per gestire “la robba dei boss”, la prima holding del mattone d’Italia. E
probabilmente anche la più ricca: il valore dei beni confiscati alle mafie,
infatti, si aggira intorno ai 25 miliardi di euro. Un vero tesoro, che però
spesso non riesce ad essere restituito alla collettività. A Palermo, per
esempio, sono solo 1.300 i beni assegnati su un totale di 3.478. “Da più
parti riceviamo, in audizione, denunce che rivelano la persistenza di molte
ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia. Denunce che, dopo le
trascrizioni, trasmetteremo alla magistratura e al ministero dell’Interno
per le necessarie verifiche”, ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente
della commissione regionale Antimafia, che sta lavorando ad un dossier sulla
gestione dei beni confiscati. Proprio ieri la commissione Antimafia ha
ascoltato la deposizione del prefetto Umberto Postiglione, che ha sostituito
Giuseppe Caruso alla guida dell’Agenzia. “Insieme alla commissione Lavoro
dell’Assemblea regionale siciliana – ha continuato Musumeci – stiamo
elaborando una proposta di modifica della legge nazionale vigente ponendo
particolare attenzione due problemi: la tutela dei dipendenti di quelle
aziende che spesso chiudono dopo la confisca; il patrimonio di edilizia
abitativa da destinare, a nostro avviso, alle famiglie indigenti e alle
Forze dell’ordine piuttosto che restare inutilizzato e in completo
abbandono”. L’emergenza principale è forse rappresentata dai dipendenti
delle aziende sottratte a Cosa Nostra. La maggior parte delle società
confiscate, infatti, finisce per fallire, e i dipendenti rimangono senza
lavoro. Questo perché il codice antimafia recentemente approvato, che ha
preso il nome del ministro Angelino Alfano, prevede la liquidazione di tutti
i crediti non appena l’amministratore giudiziario prende possesso della
società. “Significa che se questa norma venisse intesa in senso rigido, il
tribunale deve procedere a liquidare il 70 per cento dell’impresa per pagare
tutti i crediti: e quindi non resterebbe alcuna risorsa per continuare a far
vivere l’azienda”, spiega il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano
Paci. Con il risultato che dopo la confisca gli ex dipendenti delle aziende
di Cosa Nostra rimangono senza lavoro. “Con la mafia si lavora, con lo Stato
no” gridavano negli anni ’80 gli operai delle prime aziende confiscate a
Cosa Nostra. Oggi la situazione non sembra particolarmente migliorata. Un
segnale poco incoraggiante, pericolosissimo in una terra come la Sicilia
che di segnali vive e si alimenta. Questo vale per la Sicilia, così come
vale per tutta l’Italia.
Spero di aver dato un contributo costruttivo al dibattito.
Dr Antonio Giangrande
Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia