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Spia o martire?

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La statistica è contro l’esaltazione della moralità dei pentiti: il numero dei collaboratori si avvicina al migliaio.
Mille eroi, tutti provenienti dall’esercito mafioso di pluriomicidi, estortori, spacciatori, sono in leggero soprannumero per la piena credibilità delle loro buone intenzioni!
La nostra giustizia, che ormai molti avvocati definiscono “confessionale”, ha da tempo imboccato la via oltremodo pericolosa del pentitismo, come unica arma per la lotta contro la criminalità organizzata, al posto d’una investigazione poliedrica, altamente qualificata, che potesse servirsi, fra gli altri strumenti, anche del contributo di taluni affidabili pentiti.
L’errore originario è stato quello di aver promosso una sorta di pentitismo di massa, attraverso quella norma del famoso decreto Scotti-Martelli, che ha istituito i colloqui che gli ufficiali di polizia giudiziaria dei servizi investigativi antimafia possono avere nelle carceri con detenuti ed internati, “al fine di acquisire informazioni utili per la prevenzione e repressione dei delitti di criminalità organizzata”.
Facoltà retaggio delle carceri staliniane!
La prima legislazione premiale è stata quella relativa al terrorismo, ma era limitata nel tempo, applicabile solo ai reati commessi sino ad una data fissata.
La differenza rispetto alla criminalità organizzata era data sia dal fattore ideologico, quale che fosse stata l’eresia delle idee, sia dal fattore culturale (su 3.200 terroristi detenuti, 2.000 erano studenti e 120 erano delegati sindacali), che hanno costituito valevoli baluardi allo straripamento tendenziale delle accuse dall’alveo della verità verso i declivi della calunnia.
Con il codice Rocco, l’elemento di riscontro richiesto doveva essere obiettivamente certo, e non soltanto possibile, o ancor meno congetturale, non essendo logicamente ammissibile l’attribuzione di una funzione verificatrice della certezza d’un fatto ad un elemento del quale, a sua volta, dovrebbe essere verificata la certezza.
Indirizzo giurisprudenziale reso ancor più categorico, dopo il dibattito scaturito dal processo contro Enzo Tortora.
Sennonché, verso la fine del 1990, la giurisprudenza mutò, nel senso di estendere la nozione di riscontro ad “ogni elemento di prova, di qualsiasi tipo e natura”, sino al punto di negare la necessità ch’esso consistesse in un fatto.
Si è pervenuti ad asserire che i riscontri potranno consistere non solo in prove di valore autonomo, ma anche in argomenti di natura logica che, per la loro inequivocità e stretta aderenza al fatto riferito ne confermino l’attendibilità del pentito.
Conseguentemente, fatti obiettivi sostituiti da ragionamenti, teoremi, chiacchiere, improntati a quella logica dalla quale è inseparabile il substrato squisitamente soggettivo!
Ma le incertezze probatorie che il fenomeno del pentitismo produce sono dovute anche ad altre cause.
La più importante è quella che deriva dalla stupidità morale del mondo criminale, con la nota dominante della psicologia del delinquente caratterizzata dall’assoluta insensibilità e la tipica irresponsabilità al rischio, corroborato ciò dallo specifico interesse ad accusare, determinato dai vantaggi che se ne possono ricavare in relazione non solo alla misura della pena, ma anche al trattamento di favore durante la detenzione, tanto più premuroso quanto più il carico delle accuse sarà ingente e duraturo.
Nei paesi del common law, il pentito non viene perseguito per il reato da lui commesso, ma assume la qualità di testimone ed è quindi responsabile di tutto ciò che dice, senza possibilità di esimersi e con la remora che la sua condotta e suscettibile d’incorrere in severe sanzioni penali.
Dal punto di vista morale, nessuno può negare il grande valore laico e religioso della confessione delle proprie responsabilità, così come non si può negare il fondamentale civismo di chi disinteressatamente rende la sua testimonianza.
Ma non si può negare che l’accusa del complice, il tradimento del pactum, pur sceleris, specie se è inteso ad ottenere benefici personali, ha rappresentato in tutti i tempi un disvalore.
E’ ovvio che al pentitismo non si può rinunziare, ma esso va gestito con professionalità e con cautela, le stesse che alcuni magistrati vi hanno posto e vi pongono, mentre altri sembrano ispirarsi unicamente a motivi propagandistici di politica criminale, quando non sussistano addirittura velleità di protagonismo.
Del pentitismo lo Stato non può fare a meno, ma non si deve pretendere di inalberarlo come un vessillo: su un piano più generale, dovremmo auspicare che, nell’epoca della tecnologia avanzata e dei viaggi interplanetari, la prova scientifica informi di sé il mondo giudiziario e non si rimanga abbarbicati soltanto alla prova medievale della “nomina del socio”, di cui già Mario Pagano, nello scorso secolo, diffidava per il sospetto “che l‘imputato cerchi la propria difesa nell’altrui accusa”.