Troponina mon amour Non è tutta ischemia quella che luccica
di Natalia Gelonesi
C’era una volta…
C’era una volta, nel bosco incantato della cardiologia, un gruppo di allegri enzimi, chiamati appunto enzimi cardiaci. Trascorrevano felici le giornate tra alti e bassi, immettendosi ogni tanto in circolo per farsi notare, tra curve e rettilinei. Erano fieri del loro ruolo nella diagnosi di infarto e pertanto si sentivano importanti ed intoccabili. In Pronto Soccorso erano richiestissimi e non c’era nessuno che non facesse ricorso ai servigi del signor CK e del suo attendente CK MB, delle gemelle AST/ALT, di miss Mioglobina.
Ma un bel giorno, proprio mentre Mioglobina si stava guardando allo specchio, rivolgendogli il consueto interrogativo “Specchio specchio delle mie brame, chi è il marker più attendibile del Reame?”, lo specchio, inaspettatamente, rispose: “La troponina”. “E mo chi è sta Troponina?”, si domandò, sconvolta e sconsolata Myo, che andò subito a chiedere delucidazioni agli altri enzimi. Ma nessuno sapeva niente. CK stava discutendo con CK MB, le gemelle AST/ALT stavano provando il nuovo outfit per la festa dell’Epatite C e LDH si interrogava su quale fosse il suo ruolo in questa vita. Così Myoglobina andò di nuovo dallo specchio per avere delle risposte.
Chi è, o meglio cos’è questa troponina? Intanto non è un enzima come il resto della compagnia. È una proteina muscolare, altamente sensibile nel rilevare un danno miocardico, perché viene immessa in circolo in seguito alla necrosi (alla morte) del tessuto cardiaco, liberata appunto dai miociti, cioè dalle cellule del muscolo cardiaco. È una roba tipo “Fermi tutti se non arrivo io non inizia la festa” o “No troponina no Ima”. È un parametro che ha agevolato tantissimo la gestione del dolore toracico e permesso di fare diagnosi di sindrome coronarica acuta (infarto, se vogliamo usare un linguaggio più spicciolo) che altrimenti sarebbero sfuggite, ma che, parallelamente e paradossalmente, ha complicato enormemente la vita dei medici d’urgenza e dei cardiologi, soprattutto.
Perché, a fronte di una grande sensibilità e della possibilità di essere rilevata, con un esame del sangue, in tempi relativamente brevi – a 2 ore dall’inizio dei sintomi -, se non dosata con oculatezza e appropriatezza, può risultare un dato confondente. A Miss Troponina non bastava essere la prima della classe, la reginetta del ballo, l’idolo indiscusso del Pronto Soccorso, il marker di miocardionecrosi per eccellenza. No. Si doveva infilare anche in altre cose e complicarle. Infatti, un aumento in circolo della troponina è espressione non solo di un danno miocardico da infarto ma risulta elevata in tutte quelle condizioni racchiuse sotto il termine di “myocardial injury” che possono essere legate a condizioni diverse da una causa ischemica primaria. Tra queste rientrano:
– le condizioni in cui si verifica un’ischemia secondaria a uno squilibrio tra richiesta di sangue e apporto di sangue al muscolo cardiaco (cardiomiopatia ipertrofica, insufficienza respiratoria severa, aritmie ad elevata frequenza, dissezione aortica, severa anemia, infiammazione delle arterie coronariche);
– situazioni di danno miocardico non ischemico (contusione cardiaca, scarica di defibrillatore, miocarditi, chirurgia cardiaca, rabdomiolisi, terapia con agenti cardiotossici);
– situazioni inquadrate come multifattoriali: scompenso cardiaco, embolia polmonare, grave sepsi (infezioni), insufficienza renale, emorragia cerebrale, esercizio fisico molto intenso.
Pertanto, se alcune di queste condizioni di danno miocardico, pur non avendo genesi squisitamente ischemica, possono essere comunque gestite in un ambito cardiologico (e parlo soprattutto di piccoli ospedali sprovvisti di un reparto di Medicina d’Urgenza) le altre che invece arrivano all’attenzione del cardiologo – pur non essendo di competenza cardiologica – rappresentano quelle che in gergo tecnico vengono definite come “rogne”.
E qui ci avventuriamo nell’insidioso sentiero delle troponinosi, dove, a colpi di consulenze, formulette consolidate e “paraculaggine” clinica maturata sul campo, il cardiologo si deve difendere dagli attacchi di chi vuole mettere il laboratorio davanti alla clinica e curare il dato invece che il malato o, semplicemente, scaricarsi di ogni responsabilità trovando la collocazione alla troponina, piuttosto che al paziente. Scenario standard. Paziente di 90 anni: febbre, dolori addominali, insufficienza renale, anemia, segni di infezione in atto. E però… e però… e però… “E però c’ha la troponina. Vieni a farmi la consulenza”. Beh, e sta troponina mo chi l’ha invitata? Non bastavano tutti gli ospiti che già c’erano? Già ce la vedo la PCR che pensa “Ah ecco mo è arrivata lei e ci rovina la festa”. Infatti è arrivata lei. Miss Troponina. E tutti gli altri possono farsi da parte. Se prima non si esclude che sia un problema cardiaco e se prima il cardiologo non mette nero su bianco che può essere ricoverata in un altro reparto o addirittura, udite udite, inviata a casa, non si va avanti. Non importa se questo causa un ritardo nella diagnosi e nel corretto inquadramento del paziente. La troponina prima di tutto.
E se poi non si riesce a districarsi in questo fitto intreccio di comorbidità, e si ricovera il paziente con diagnosi di “Rialzo di troponina”, peggio che peggio. Si dosa e si ridosa sperando che una voce dal cielo ti dia un’illuminazione, che dal laboratorio qualcuno ti dica “Era solo uno scherzo” e intanto passano i giorni e non sai che cosa fartene di questa strana presenza che è sempre lì, un giorno 0.7, un giorno 0.5, un giorno 0.8. Dispettosa come una scimmia. Ti rimane là, come quelle cose che restano in frigo ma non ti senti di buttare e prima o poi fanno la muffa. Ma non inizia a starvi un po’ antipatica?
In fondo non è cattiva, anzi. È un po’ come quelle persone istrioniche, esuberanti, accentratrici: va presa a piccole dosi e soprattutto non bisogna lasciarle troppo spazio. Basterebbe, invece che cercarla dappertutto con la stessa foga e lo stesso accanimento con cui si va a caccia di Pokemon, essere un po’ più selettivi (esserlo nella vita non guasta mai) e dosarla solo nelle situazioni in cui c’è un’elevata probabilità che il dato possa essere coerente con la clinica. In tutti gli altri casi facciamo finta che non esista e lasciamola stare. Che se no poi si monta la testa.