Una sentenza sconsacrata Una storica narrazione del giurista blogger Giovanni Cardona
Seconda metà del secolo XIII.
Alcuni principi si contendono il Regno di Napoli e Sicilia. A quell’epoca collidevano due opposti pretendenti. Carlo I d’Angiò era stato investito re da Papa Alessandro IV, mentre a sua volta Manfredi di Svevia s’era autoproclamato erede del regno, quale figlio (naturale) di re Federico II.
Lo scontro fra i due rivali, portò allo scontro diretto dei rispettivi eserciti, che si dettero battaglia nei pressi di Benevento. La vittoria sembrava arridere a Manfredi, ma inopinatamente egli venne ucciso in una mischia nella battaglia e la palma rimase così agli Angioini.
Carlo d’Angiò entrò quindi in Napoli e prese possesso dei regno, senonché invece d’ingraziarsi l’oligarchia dominante e di conciliarsi gli animi dei sudditi, li inasprì con continui soprusi e gravezze, come provano i Vespri Siciliani, al punto che i notabili e i baroni invitarono il sedicenne Corradino di Svevia, erede di Corrado IV a scendere nei napoletano per incoronarlo re, promettendogli danaro, uomini ed armi per la necessaria azione.
La Regina Elisabetta, madre di Corradino, supplicò il figlio di non andare, lo scongiurò in lagrime. Ma, Corradino, fatto forte dell’appoggio del giovane suo cugino Federico d’Austria, che si offrì d’accompagnarlo alla conquista del regno, accettò lusingato l’offerta dei nobili napoletani e radunati allo scopo in Germania molti armati ed incamerate vistose somme inviategli, mosse alla volta di Napoli scendendo per la via dell’Abruzzo.
Ma, quando giunse nella piana di San Valentino presso Tagliacozzo, trovò le schiere nemiche accampate al comando del Capitano Alardo de Valery (ricordato da Dante nel XXVIII canto dell’Inferno), con a capo lo stesso Carlo d’Angiò.
Il cozzo fra gli eserciti rivali fu tremendo e ad un certo momento Carlo d’Angiò, che assisteva da Poggio Felice, fece irrompere nella battaglia anche la legione di riserva, per poter annientare così ogni resistenza nemica.
Nella sopraggiunta oscurità notturna, Corradino e Federico riuscirono a trovar scampo e a dileguarsi.
Dopo lunga corsa, sperduti, sfiniti, ansimanti, giunsero al mare, e qui ingaggiarono un barcaiolo, che accettò di accompagnarli a raggiungere la flotta pisana, ancorata poco lontano, dietro offerta di un prezioso anello datogli da Corradino.
Ma, il barcaiolo capì chi aveva a bordo della sua barca e, fingendo di andare incontro alle navi della flotta pisana, portò i due giovanissimi principi presso il signore di Astuni, amico degli Angioini, il quale consegnò i giovanissimi rampolli a Carlo d’Angiò per rendergli un grandissimo favore e tenerselo amico.
I due giovani furono così portati a Napoli, dove nella reggia era già stato subito allestito un tribunale, composto di giureconsulti e di baroni, allo scopo di sentenziare sulla sorte dei due giovani prigionieri, di cui Carlo d’Angiò personalmente voleva la condanna a morte, ma non voleva far credere di averli condannati lui.
Il Tribunale riunitosi discusse per varie ore, ma al momento di decidere si divise nettamente in due fazioni.
Prevalse quella che propendeva per liberare i prigionieri e rispedirli nel loro paese, mentre la minoranza era per la condanna a morte per dare soddisfazione al monarca vincitore. Intanto, il Pontefice Clemente IV, aveva inviato dei messi a Napoli per consigliare il re al perdono verso i giovani principi.
La Sentenza fu per il perdono, precisando che i due principi non erano stati catturati in battaglia, ma consegnati per un vile tradimento.
Ma, a che serve una decisione, un giudicato, se non è gradito a chi in effetti comanda? La decisione restò perciò inaridita nel nome della ragion di Stato, vale a dire del volere del più forte, del monarca!
Si accese una violenta discussione, una lite, fra quanti chiedevano il rispetto della decisione, per cui era stato convocato questo speciale tribunale che aveva sentenziato per il perdono e quanti invece contrastavano la decisione sostenendo che non contava un bel niente e che si doveva agire solo secondo la volontà del re, che era stata espressa al momento della convocazione e che perciò la risoluzione era unica e già presa, la condanna a morte (P. COLLETTA, Del reame di Napoli).
I due giovani, infatti, non furono rilasciati, ma consegnati agli armati e trascinati sulla Piazza del Mercato per essere giustiziati con la mozzatura del capo.
Una gran folla accorse alla novella, per non perdere lo spettacolo occasionale. Il primo ad essere decapitato fu Federico d’Austria la cui testa cadde sotto la scure del carnefice.
Corradino che era lì affianco, agghiacciato, esterrefatto, raccolse la rubiconda testa del cugino, grondante sangue e le impresse affettuosi baci. Dopo aver pregato un attimo, gettò un guanto alla folla e giunte le mani si inginocchiò piegando sul ceppo ferale il biondissimo capo, che in un istante gli venne reciso netto e mostrato al popolo.
Elisabetta di Baviera, intanto, venuta a conoscenza di quanto stava accadendo in Italia, si affrettò, per quanto possibile a giungere a Napoli, mandando a conoscere che intendeva riscattare con l’oro la libertà di suo figlio e del nipote, richiedendo perciò la sospensione di ogni decisione.
Ma, Elisabetta giunse a Napoli troppo tardi e poté trovare solo i resti mortali del figlio che erano stati raccolti, insieme a quelli del cugino, dai Padri Carmelitani.
La condanna voluta e fatta eseguire da Carlo d’Angiò contro la decisione del tribunale all’uopo nominato, fu esecrata ed ancor oggi è esecrata dal popolo napoletano.
Nel 1847, Massimiliano di Baviera fece erigere in Napoli un bellissimo, artistico monumento, riproducente la soave figura di Corradino, scolpito da un celebre scultore danese, allievo della scuola del Canova, con l’iscrizione: “a Colui che fu Re Corradino”.