“Ce n’est rien de mourir, c’est affreux de ne pasvivre”
(V.Hugo)
“È nulla morire, spaventoso è non vivere”
Perché un uomo scrive poesie per 40 anni?
Fu questa la domanda che mi feci prima di addentrarmi in quell’immenso oceano di sensazioni qual è “Infinitesimi Planetari”. La raccolta, infatti, oltrepassa l’inchiostro in essa contenuto, raccogliendo l’esperienza personale di un uomo che si mette a nudo, raccontando tutte le sue paure ed i suoi rimorsi, accentuate da un uso magistrale delle parole, che si intrecciano a formare un tremendo gioco di melanconia e cupezza, mitigato da lievi punti di luci, che rispecchia a pieno il cammino della vita umana.
Già il titolo, accuratamente espressivo, e il componimento proemiale tracciano i solchi tematici di tutta la raccolta: la situazione del poeta (il quale incarna a pieno titolo il genere umano), profondamente cosciente di essere solo un insignificante granello degli infinitesimi planetari, estremamente piccolo ed evanescente, gettato nell’immensità dell’universo, eppure appagato perché parte di esso; il profondo sentimento del tempo.
Proprio questa sensazione tormenta maggiormente l’animo del poeta, stanco e oppresso dalle circostanze della vita, prigioniero di una cultura torva e distorta, che ha inaridito la sua esistenza e frenato le sue passioni, tanto da voler dimenticare l’arida terra di Calabria.
La tradizione, in altre opere esaltata dall’autore, viene ora ripudiata. Ciò non dimostra affatto incoerenza, anzi, è proprio la totale εμπαθεία verso di essa, ovvero il sentirla come parte integrante della propria vita, che lo porta a sentirla come un freno, un peso sulle spalle della sua libertà.
Ne scaturisce un desiderio di solitudine e, quindi, di morte (cupio dissolvi). Ma la morte desiderata è più una fine ideale, che porta alle rinascita: dunque l’antonimia vita/morte si risolve in un’analogia tra i due termini, come afferma il poeta stesso (vivere e morire sono la stessa cosa); questo desio nasce, infatti, proprio da un’impossibilità di vivere nel mondo ed il poeta anela proprio alla vita, quella vera, pura, umile, libera e autonoma (Io non ho interesse/ a possedere il mondo,/ il mio unico interesse/ è vivere liberamente). E proprio in questo, quell’infinitesima parte, insignificante granello dell’universo rivela una sua natura potenziale, cioè una tensione ad annullarsi per ricongiungersi con se stesso, con la sua anima. Ed il veicolo migliore per fare ciò è la poesia, nella quale l’autore trova il suo Dio, grazie alla quale riesce a contenere il mondo, a liberarsi delle catene che lo opprimono, proiettato pienamente in una dimensione diversa, senza spazio né tempo: l’INFINITO.
Ecco che alla domanda iniziale trovo finalmente risposta: un uomo è così fedele alla sua Musa, perché con essa si sente libero, assoluto, poiché la penna fluttua spontaneamente tra le pagine, il sogno si realizza ed il tempo si azzera.