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TAURIANOVA (RC), VENERDì 22 NOVEMBRE 2024

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Unical, Boldrini: “Ponte sullo Stretto non è priorità” Il Presidente della Camera in visita all'Università della Calabria

Unical, Boldrini: “Ponte sullo Stretto non è priorità” Il Presidente della Camera in visita all'Università della Calabria
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RENDE (COSENZA) – “Penso che il ponte sullo Stretto non sia una priorità in un’Italia dove il dissesto idrogeologico continua a fare danni. La priorità è mettere in sicurezza i cittadini”. A dirlo la presidente della Camera Laura Boldrini, oggi all’Unical per il convegno su “Donne, Mezzogiorno, Europa”.

La Presidente ha poi annunciato la presenza alla manifestazione contro la violenza di genere indetta dalla Regione per il 21 ottobre a Melito Porto Salvo dopo il caso della 13enne violentata. “E’ una storia terribile – ha detto – di una bambina violentata per anni nel silenzio, nella paura di denunciare qualcuno che poteva danneggiare la famiglia, il figlio di un boss. Trovo doveroso per le istituzioni stare accanto alle vittime e alle comunità che si ribellano”. In tema di violenza alle donne la Boldrini ha anche sostenuto che “l’emancipazione non può essere delegata; ogni giorno, ogni donna deve mettere in atto questa consapevolezza”.

L’INTERVENTO COMPLETO DEL PRESIDENTE DELLA CAMERA LAURA BOLDRINI

Buongiorno a tutte e a tutti,

Saluto innanzitutto il Rettore, professor Crisci; saluto e ringrazio il centro “Women Studies, Milly Villa”, che tanto si è adoperato per mettere in piedi la borsa di studio con i proventi del mio libro “Lo sguardo lontano”. Un libro uscito quasi due anni fa, che ho voluto scrivere a metà legislatura anche per raccontare il lavoro faticoso dell’istituzione, di una politica che crede nei valori e che spesso non viene raccontata dalle cronache.

E ringrazio in particolare la professoressa Vingelli e gli altri membri della commissione esaminatrice, la professoressa Petrusewicz e il professor Fiorita. Saluto anche tutti gli altri relatori e il direttore del dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, professor Raniolo. Oltre a tutte le autorità presenti, fra le quali vedo anche diversi colleghi deputati. E naturalmente saluto e faccio i miei complimenti a Alessia Tuselli, la giovane di Vibo Valentia e dottoranda alla Federico II di Napoli, alla quale è stata assegnata la borsa di studio, nell’abito del progetto “la violenza contro le donne: educazione alla prevenzione e linguaggio di genere”.

Naturalmente saluto e ringrazio voi ragazzi e ragazze. Vedo che siete tantissimi, non solo universitari ma –mi dicono- anche giovani studenti delle superiori. Questo mi fa davvero molto piacere.

Fatemi tornare sul tema della borsa di studio. Partiamo dal linguaggio: di certo avrete notato che ormai sta diventando quasi normale dire ministra, sindaca, ingegnera o architetta. Ma fino a pochissimo tempo fa non era affatto così, c’erano resistenze culturali nel declinare al femminile determinate professioni, soprattutto se riguardavano ruoli di vertice. Mentre ad esempio non c’è mai stata alcuna resistenza a dire contadina, operaia o infermiera. Questo cosa vuol dire? Che la resistenza c’è quando le donne svolgono ruoli più alti nella scala sociale, ruoli da sempre ricoperti quasi esclusivamente dagli uomini. Ma, poiché le donne si stanno facendo strada nella società, devono poter mantenere il loro genere anche nelle posizioni di vertice, come ci dice molto chiaramente l’Accademia della Crusca: ogni ruolo deve essere declinato sia al maschile che al femminile, chi non lo fa commette un errore grammaticale.

Anche alla Camera in questa legislatura c’è stata una piccola rivoluzione: prima si diceva sempre deputato, ministro, il presidente ecc che si trattasse di un uomo o di una donna. E io stessa spesso in aula venivo chiamata signor presidente. Dopo aver ripreso il deputato che mi chiamava al maschile (quasi sempre un uomo ) ho iniziato a chiamarlo signora deputata…. tra le risate generali. A poco a poco non lo hanno più fatto.

Ma anche negli atti della Camera, grazie ad una circolare emessa sua mia richiesta dalla segreteria generale, adesso per la prima volta è entrato il genere femminile.

In molti mi hanno chiesto perché ho scelto proprio un’università del Sud, anzi un’università calabrese, per devolvere la borsa di studio. La mia risposta è che i dati parlano chiaro: è al sud, senza dubbio, che assistiamo a drastiche flessioni, in termini di numero di immatricolati e di finanziamenti pubblici. Ho voluto quindi dare un segnale di attenzione a questo territorio. E’ da qui, dal Mezzogiorno e da questa regione in particolare, che secondo la Svimez parte il più alto numero di giovani che non vi fanno ritorno. Questa perdita definitiva di capitale umano costituisce un ulteriore impoverimento per il Sud: meno capitale umano, meno talenti, meno ripresa.

Fanno male ad esempio le percentuali di Almalaurea (il consorzio interuniversitario a cui aderiscono 73 atenei italiani e il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e che ogni anno produce un rapporto sullo stato delle Università italiane – ndr): 30% di iscritti in meno proprio al sud dal 2003 al 2015. Appena il 3% in meno al Nord.

Ma devono far riflettere anche i dati più recenti, relativi al 2015, di Eurostat: in Italia solo il 17,6% della popolazione ha un’istruzione universitaria, al sud appena il 14,9, a fronte del 30% della media europea.

Questi e molti altri dati su quello che il professor Gianfranco Viesti definisce il “declino” delle Università, mi hanno spinta a venire qui. Ad accendere un riflettore sull’Università del meridione e della Calabria in particolare.

Sono infatti convinta che non può funzionare un’Italia a due velocità: un nord produttivo ed economicamente più forte e un sud debole e disagiato, con fasce di povertà assoluta che superano il 10%. Anche perché, gli studi dimostrano, che la crescita del Sud vuol dire crescita per l’intero Paese. Dunque il Mezzogiorno deve tornare a far parte dell’agenda politica dei governi nazionali.

Allo stesso tempo però ritengo che le classi dirigenti del Sud debbano sfruttare al meglio le risorse di cui dispongono. E mi riferisco soprattutto ai fondi strutturali europei: perché è inaccettabile che in tempo di crisi questi fondi non vengano spesi o vengano spesi male, senza un vantaggio concreto sulla qualità della vita delle persone.

Spenderli bene vuol dire anche far capire ai cittadini il valore aggiunto dell’essere europei. Perché se oggi noi possiamo riqualificare i centri storici, continuare ad avere colture tradizionali, non vivere in città troppo inquinate, mangiare cibi controllati e non tossici è perché rispondiamo ad una serie di regole europee, mirate a tutelare il patrimonio culturale, le tradizioni e la salute delle persone. Anche questa è Europa, non solo quella che sicuramente non ci piace. Quella delle misure di austerità che non ci hanno consentito in questi anni di crescere e hanno provocato perdite di posti di lavoro e crescenti diseguaglianze.

Sono di pochi giorni fa i dati della Fondazione Migrantes: nell’ultimo anno oltre 107mila italiani sono andati all’estero per studio o per lavoro, quasi la metà dei quali sono giovani. E la stima è parziale perché basata esclusivamente sugli iscritti all’Aire, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero.

Le statistiche dai singoli stati Ue dicono ben altro: in Germania, ad esempio, si conta un numero di italiani quattro volte superiore rispetto a quello riportato dall’Aire. Non solo: è emerso anche che, a differenza del passato, non si lascia l’Italia solo per una questione di bisogno economico : si va via anche per riuscire a fare carriera.

Ed è proprio questa la tendenza che va invertita. Deve essere possibile fare carriera anche Italia, anche al Sud. In altre parole si tratta di costruire le condizioni per cui l’andare via o il tornare siano sempre frutto di una libera scelta.

C’è poi un altro aspetto importante, anzi fondamentale, per chi voglia affrontare una moderna questione meridionale: la condizione femminile al sud. Ecco perché ho voluto che le donne fossero al centro della borsa di studio.

Il primo dato che balza agli occhi, prima ancora dei dati sulla violenza di genere – purtroppo uniformi sul territorio nazionale – è quello relativo all’occupazione. Al Meridione lavora appena il 32% delle donne. Praticamente la metà della media europea che è del 60%.

Altissima, poi, la percentuale dei cosiddetti Neet (not in education, employment or training). Al Sud resta a casa – senza studiare, senza lavorare, senza frequentare corsi di formazione – una giovane donna su tre.

Una situazione allarmante, con molte ricadute inclusa anche la violenza di genere: sappiamo bene che uno dei canali per uscire dalla spirale della violenza contro le donne è proprio l’indipendenza economica. Una donna che non lavora è meno libera di lasciare il contesto in cui la violenza si è sviluppata. Soprattutto se sul suo territorio non ci sono le case rifugio o i centri antiviolenza.

So benissimo che Cosenza in questo ambito è stata quasi una pioniera con strutture importanti come il centro Roberta Lanzino. Così come conosco bene le difficoltà che i centri della regione stanno attraversando per la mancanza di fondi, spesso stanziati ma non arrivati a destinazione a causa di un poco efficiente sistema di ripartizione. La ministra Boschi, in audizione alla Camera proprio una settimana fa -nella commissione Jo Cox contro il discorso d’odio e le discriminazioni- ha spiegato che sta lavorando a ridefinire l’intesa con gli enti locali perché le risorse vengano meglio distribuite.

Ma qui in Calabria avete anche una legge regionale sui centri antiviolenza e le case rifugio, che è addirittura del 2007, cioè ben prima della Convenzione di Istanbul – approvata dal Parlamento in questa legislatura- pietra miliare contro la violenza di genere. Riuscire a finanziarla, tra le mille difficoltà di questa terra che certo non ignoro, sarebbe un segnale davvero importante.

D’altra parte non possiamo dire alle donne “denunciate!” se poi le lasciamo sole, senza reti di salvataggio.

Penso, ad esempio, alla solitudine della ragazzina di Melito, che ha subito per anni la violenza del branco in assoluto silenzio. In quel caso un silenzio familiare innanzitutto, dovuto anche alla paura di denunciare il figlio di una potente famiglia di ‘ndrangheta.

Per questo ho accolto con convinzione l’invito del Presidente Oliverio ad andare alla manifestazione che si terrà proprio lì, il prossimo 21 ottobre. Perché è un dovere delle istituzioni esserci, manifestare vicinanza e solidarietà alle vittime, e dire no all’indifferenza.