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La caduta dal pero di Anzaldi

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A parte le solite cialtronate di Grillo e dei grullini che come da copione mostrano di capire ben poco di ciò che succede attorno a loro (purtroppo Goebbels, che hanno maldestramente evocato, ne capiva certamente più di loro di comunicazione politica), l’intemerata del deputato del Pd Michele Anzaldi che ha sferrato colpi di maglio all’establishment postguglielmino di Raitre ha suscitato la prevedibile polemica al calor bianco (con in prima fila, neanche a dirlo, l’Usigrai, il sindacato aziendale dei giornalisti) che, per altri versi e con altri protagonisti non è nuova, ogniqualvolta qualcuno si permette di porre la questione del pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo
Che Raitre e Tg3, sin dalla loro nascita, che risale alla Prima repubblica, abbiano costituito il braccio mediatico del Pci, Pds, Ds e del Pd ante Renzi, che i programmi della rete siano sempre stati orientati a evidente (e talora sfacciato) sostegno di quell’area politica con l’arruolamento in video di giornalisti, intellettuali organici, attori, attrici, autori, anchor men (e womwn) archetipi di una faziosità che ha pochi eguali nel panorama televisivo italiano e internazionale, è cosa nota e stranota.
Al confronto la Rai di Bernabei era un esempio di pluralismo nell’informazione.
Curioso che il deputato Anzaldi, che non è componente della commissione di Vigilanza da ieri, si sia accorto solo ora.
Curioso e sospetto, soprattutto se si leggono gli argomenti, pur condivisibili, che porta a sostegno della sua tesi.
Negli anni scorsi il tema dell’accesso al servizio pubblico, ai talk show, ai telegiornali è stato più volte sollevato, in forme diverse e con la dovuta enfasi in particolare da esponenti socialisti e radicali.
Dov’era allora l’on. Anzaldi?
Dove i commissari che si sono succeduti nella commissione parlamentare di vigilanza?
La caduta dal pero di Anzaldi è sorprendente e autorizza il sospetto che vi sia nella sua tesi, condivisibile ma un po’ tanto tardiva, il retropensiero di chi pone la questione con un’enfasi motivata unicamente dalla guerra, non ancora terminata, all’interno del Pd e che la minoranza di quel partito, persa ingloriosamente la battaglia sulle riforme costituzionali, consideri la prossima riforma della rai e dell’informazione la linea del Piave su cui attestarsi a difesa dell’attuale assetto e soprattutto dei suoi attori principali, tutti o quasi, legati alle vecchie nomenklaure del Pd..
L’Osservatorio di Pavia non è nato l’altro ieri.
I dati, inoppugnabili, che comunica, da tempo denunciano un pauroso deficit di pluralismo senza che nessuno se ne sia fino ad oggi preoccupato.
E’ bene che in Rai lo stato delle cose cambi rapidamente.
A prescindere dai nomi e cognomi che, in ogni caso, Anzaldi avrebbe fatto bene ad evitare di indicare.
Infine un telegramma alla “corporazione”.
Sembrerebbe che, finalmente, sia giunto il momento del redde rationem.
Va detto chiaro e forte non c’è nulla di strano o di scandaloso che un esponente della politica ponga una questione che, a cominciare dal servizio pubblico, è, non da oggi, di un’evidenza lapalissiana.
Occorre che finalmente i capataz di Fnsi, Usigrai e quant’altri assumano l’elementare concetto che gli operatori dell’informazione, proprio in ragione del delicato ruolo che svolgono, non possono seguitare a considerarsi una sorta di categoria impermeabile a immune da critiche e rilievi.
Anziché strillare, gridare agli editti bulgari, alla supposta soppressione della libertà di espressione sarebbe tempo che le vestali del modesto mondo giornalistico nostrano uscissero dall’autoreferenzialità che ha reso la loro categoria, quella si, una casta di intoccabili e comincino a interrogarsi sugli elementari concetti di autonomia e responsabilità.

Emanuele Pecheux