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L’abito non fa il monaco

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Ci sono dogmi difficilmente smontabili, “detti” antichi e popolari, del quale alcuni sono parte della costruzione di “pregiudizi” che convivono in ciascuno di noi, creati ad arte per classificare o categorizzare gli altri, spesso per riconoscersi in un gruppo, per il bisogno di appartenenza, per interessi personali, e poter assumere una identità. Etichettare è limitare, oltre a segnalare la falsa comprensione che si ha delle persone, per la fatica a reggere i confronti, a tollerare le diversità, incasellandole in figure e personaggi. È uno schema mentale che si ripete spesso, a volte inconsapevolmente, al limite della libertà e della propria crescita umana.

Il titolo di questa riflessione nasce dalla lettura di un testo in particolare, L’abito non fa il monaco (Cristiano Mauri, Milano 2013). C’è una vasta letteratura in proposito, soprattutto per le scienze psicologiche e sociologiche che riuscirebbero ad elevare il contenuto riflessivo in proposito, il cui proverbio, solitamente applicato alla categoria religiosa, si riferisce anche ad altri “mestieri”, come quelli dell’insegnante, del politico, del medico, per fare (ha qui le sue origini il detto) qualche esempio. L’autore dello scritto offre spunti ed interrogativi intorno ad una figura biblica, il patriarca Giacobbe, (per afferrare il tema occorre leggere i cc. 28-33 del libro della Genesi), una forma di dr. Jekyll e mr. Hyde, immagine simbolica del rapporto di coerenza che intercorre tra fede e vita.

Il personaggio biblico di Giacobbe è un uomo scaltro, caparbio, si fa strada a calci, un ingannatore. Egli attraverso un lungo e faticoso percorso costruirà la propria identità, tramite la relazione col mondo, mediante la tessitura della trama di rapporti umani che la costituisce e l’affidamento a Dio. Il racconto biblico è costruito attorno ad una sottile ironia, tra il gusto della sfida e la passione dell’impegno e della responsabilità, dove si vuole dimostrare che in mezzo a mediocrità, ambiguità e conflitti, Giacobbe deve passare il “guado”, il travaglio faticoso della lotta, dove non evita la fatica dell’incontro-scontro con l’altro, altrimenti finirebbe col paralizzare la propria crescita umana e di fede. È centrale nel racconto il vestire con fatica e con la consapevolezza la vocazione di uomo di fede. La sua figura ci immerge nella dimensione agonistica della dimensione del vivere, è sorprendente e attuale, un paradigma della difficile arte umana, quella di essere, quella che l’uomo dovrebbe porre alla base del suo comportamento, ma pone l’interrogativo se il problema – al di là della vicenda biblica – è la mediocrità di Giacobbe oppure della visione o del pensiero corto nello sbilanciarsi a formulare valutazioni.

L’abito fa il monaco? Se abbiamo dato uno sguardo “critico” ai capitoli della tormentata vicenda del patriarca, viaggiando dentro la storia di questo uomo complesso, tra zone grigie e territori di sconfinata tenerezza, nonostante le ambiguità, è divenuto una guida del popolo. Tentando di offrire qualche risposta, e immergendoci nelle vicende del proprio tempo, alla luce di esperienze, in famiglia, nella società, nel lavoro, il finale sembra altro che scontato, evidenziando che per Giacobbe non è stato un formalità vestire la “divisa”, l’apparenza, spesso, nasconde le potenzialità della persona.

Prima di divenire vittima del lettore o dell’acuto osservatore, se da un lato non occorre dare alibi alle doppiezze di vita, dall’altro, la pretesa univoca di definire la persona (o un gruppo), entro i propri confini (angusti schemi mentali), dove spesso si preferisce vedere solo precarietà, limiti e sventure, ci si accorge dell’arte difficile della curiosità intellettuale, cioè, il riuscire a vedere da un altro punto prospettico. Nel caso specifico, Giacobbe, è una della tante personalità originali della storia, biblica e non, che si veste non con l’abito dell’onnipotenza ma con il grembiule della debolezza, mostrando che il monaco è più importante dell’abito tante volte mal visto dagli altri.