L’intelligenza è sovrana. Ma c’è da chiedersi: è sempre giusto il senso di apparente deplorazione col quale si tratta l’astuzia?
La vita umana, animale e vegetale, poggia per la maggior parte sulla astuzia, sulla scaltrezza.
Come la ricchezza, la furberia è una dote che il mondo è disposto a riconoscere e che anzi tende a sopravalutare. Si attribuisce al prossimo una scaltrezza quasi sempre maggiore di quella che esso abbia: esattamente come per la ricchezza. Di un uomo ricco si dice sempre, infatti: è ricchissimo. Di un furbo, ancora più.
Ognuno intende che l’intelligenza, come tutte le cose difficili ad essere definite, sia un maximum: tutte le definizioni sono finora state approssimative.
Musella dice: “l’intelligenza è la destrezza organizzata dalla mente verso la soluzione di un problema”: l’osservazione per impostare un problema, l’immaginazione per formulare un’ipotesi, la critica per sceverarla.
Papini afferma: “l’intelligenza è la felicità quasi rara e sconosciuta di capire, comprendere tutto. Gioia immanifestabile di concepire, di sapere, di realizzare, di veder chiaro. Voluttà perpetua di guardare in piena luce le cose…”.
Questa è una descrizione, non una definizione: il fatto di comprendere tutto è il risultato dell’intelligenza, non l’intelligenza. Senza il cuore non ci sarebbe la circolazione sanguigna; ma il cuore non è circolazione sanguigna.
E’ difficile una definizione senza cercar di capire dove sia, dove nasca, donde si irradi l’intelligenza: forse dal cervello?
Non lo si può dire con sicurezza.
Se Georges Cuvier ha un cervello che supera di 489 grammi la media e Otto von Bismarck di 632, il cervello di Dante supera solo di 60 grammi la media; quello di Léon Gambetta poco meno di 89 grammi.
Giovanni Mingazzini antico ed eccelso neurologo del resto sostiene che il peso dei cervello varia da un popolo all’altro. Il nostro è un popolo considerato tra i più intelligenti.
La furberia, più che un volo è un agguato: una strada, più che un campo.
Ma la furberia è il segreto del successo. Il successo non lo si conquista solo con la furberia, ma non lo si può conquistare senza una dose di furberia. Chi è furbo soltanto, finisce vittima di se stesso come il pletorico è vittima del suo stesso sangue. Forse la furberia è un veleno che, a giuste dosi guarisce, a dosi massime uccide.
L’umanità del resto, vinse con la furberia le sue prime battaglie nella giungla. La furberia di Adamo nel paradiso terrestre è elementare: quella di oggi, nei corridoi della politica, è assorbente, cosmica.
Il fenomeno è biologico: sta in quella legge per cui un carattere, già dimostrato abile alla specie, non solo non regredisce, ma si fissa tenacemente.
S’è detto come la contrapposizione fra intelligenza e furberia non sia possibile. Vero è invece che l’intelligenza è uno spirito (inteso spirito nel senso originario della facoltà di altamente percepire); la furberia è un temperamento.
L’una è creazione, l’altra strategia.
L’una è spontanea, disinteressata, alterocentrica; l’altra è premeditata, utilitaria, egocentrica.
Per essere attualistica, feconda, l’intelligenza deve essere assistita da altre forze come l’entusiasmo, il sentimento, l’ambizione, la passione e anche proprio la furberia. L’intelligenza è un aiuto solo quando potenzia le chiare, umane interpretazioni della vita. Senza la passione rimane in una posizione di «adversus » in una postazione polemica che non aiuta a vivere.
Heine, Freud, Einstein tolgono qualche cruccio alla umanità quando, per virtù di sola splendida, fredda intelligenza, detronizzano l’idealismo, riducono l’universo spirituale al condotto spermatico, riducono l’assoluto al relativo.
L’intelligenza diviene «via» benefica con l’entusiasmo del costruire. E’ una forza che deve vincere le altre forze: la statica degli uomini, l’inerzia degli intelletti e quel groviglio di invidia, di malanimo, di stortura che la vita getta fra le gambe di chi voglia e possa comunicare alto: qui sorregge la furberia.
I grandi condottieri raggiunsero la gloria per magnanima intelligenza: quando caddero, caddero nel trabocchetto dell’ingenuità.
Cesare non è solo un genio: è anche un astuto. Si sa destreggiare fra Pompeo e Crasso, seduce i potenti con l’oro delle Gallie. I suoi rapporti con Cicerone rivelano l’efficienza di un’astuzia che, pur essendo l’ultima delle sue doti, è sempre una dote che concorre al trionfo. Quando parla di Catilina al Senato, non lo difende a viso alto, non lo condanna nel nome di Roma, non ne domanda la morte e neppure l’assoluzione, non ne fa un liberatore e neanche un matricida. E’ abile: vuol porgere ai congiurati una mano sottomano. Non taglia il nodo, vi ricama attorno. Poi cade, vittima della fiducia. Ha fiducia in Bruto. E cade l’unica volta in cui ha avuto l’ingenuità di non voler essere furbo.
Ancora una volta si dimostra che intelligenza e furberia non si escludono reciprocamente: anche se l’intelligenza è divina e la furberia è animalesca. Il furbo che non sia intelligente, saprà evitare la tagliola, ma non costruirà per gli altri: mentre l’intelligente che non abbia la furberia di difendere la sua intelligenza, di questa intelligenza non potrà che soffrirne.
(fine seconda parte)