Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il quattordicesimo
“Rosso”, ecco il quattordicesimo capitolo del libro di Mario Aloe
Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il quattordicesimo
SOMALIA, PRIMI GIORNI DI GIUGNO 1996
Ayman Darr passeggiava su dune dalla lucentezza tenue. Era mattino ed, ancora, il calore non rendeva faticoso camminare coi sandali immersi nella sabbia. Lo faceva sempre, ogni giorno, prima di recarsi all’ospedale.
Il contatto con la luce e il mare erano stati tratti continui nella sua esistenza fin da bambino ed, ora, erano ritornati a scandire la sua vita.
Ne aveva sentito la mancanza durante gli anni dell’Università e della sua permanenza a Roma.
In alcune giornate ne avvertiva l’assenza in maniera lancinante passeggiando lungo viale Regina Margherita: anche al mare, ad Ostia, era diverso, la spiaggia completamente differente, i profumi meno intensi e la luce del sole tenera, senza i riflessi baluginanti e le ombre degli arbusti.
Gli orizzonti della sua mente non trovavano le case a blocchi, ricoperte d’argilla e con il tetto in palmeti, fatte di essenzialità e povertà.
Era diventato medico e si era specializzato in medicina generale, così aveva voluto la sua famiglia e così lui aveva fatto non offrendo resistenza alle aspirazioni dei suoi parenti e soffrendo la lontananza.
In Italia aveva scoperto un altro mondo, fatto di libertà e di decadenza, come se le due cose stessero insieme e si chiamassero l’una con l’altra e non sapessero stare separate.
Niente restrizioni, pochi precetti religiosi e scarsi richiami morali e a fianco tanti consumi, occasioni per vedere, stili di vita: una Babele ed in questa Babele lui non si era smarrito, non aveva rinnegato le proprie origini e la fede dei padri. Il Corano era stato sempre la sua guida e il faro che aveva illuminato la sua via.
Aveva compreso che la religione poteva essere liberazione e non una prigione in cui chiudere la mente: Allah era grande e misericordioso, ma anche giusto e, quindi, tollerante.
Roma gli aveva dato questa nuova consapevolezza insegnandogli a stare con il diverso; l’infedele non era più un nemico, ma un compagno di viaggio. Anche in lui vi era traccia dell’essenza di Dio, pure questi uomini erano alla ricerca di se stessi e soli nel mondo.
Il suo esilio era durato otto anni di studi: ore passate sui banchi della biblioteca Alessandrina, tanti amici somali, iraniani, arabi e qualche italiano.
La biblioteca con la sua enorme sala di studio contenente banchi allineati, con le sedie dietro e su di esse esseri intenti allo studio, anche ragazze, era stata il luogo dove aveva trascorso gran parte della sua vita romana.
Trovava la presenza delle donne preziosa ed apprezzava dell’Occidente questa apertura e le possibilità date all’altro sesso.
Aveva imparato a rispettarle le ragazze, a non considerarle motivo di peccato o merce da preservare, nel chiuso delle case o nascondere dietro un velo.
Non tollerava l’esibizionismo dei corpi, l’intimità ostentata in pubblico, ma le parole scambiate con le donne, i loro sorrisi rappresentavano un tesoro di emozioni ed un segno della molteplicità divina: tutte le cose sono di proprietà di Allah.
Esami e, poi, ancora esami: pochi rientri a casa avevano scandito la sua permanenza a Roma. Era partito ragazzo ed era diventato uomo, in possesso di strumenti per salvare vite, di un sapere che avrebbe arricchito il potere della sua famiglia e consentito una condizione di privilegio per lui ma, soprattutto, gli avrebbe permesso di alleviare il dolore, di ridare salute permettendo al suo popolo di godere di condizioni di vita migliori. Il sapere accumulato sui libri e nelle corsie d’ospedale che riportava con sé a Quandala era nulla, mentre l’unico tesoro che conservava nel cuore era la speranza di riscatto della sua gente.
Lui pensava che la Zakat non era solo una tradizione, ma l’esemplificazione dell’esistenza: le cose appartengono a Dio e lui le dona agli uomini e non esistono meriti se non la pratica della sadaqa, che ci avvicina alla ricompensa divina.
La carità è la libertà che Dio lascia agli uomini per scegliere
tra il bene e il male e lui leggeva il bene nel benessere dei suoi simili, mentre il male lo trovava nella disperazione dei malati, nella malattia che recideva giovani vite, nelle carestie che stroncano le esistenze…
Era ritornato ed aveva trovato un paese sconvolto dalla guerra, da un eccidio continuo. Non c’era più la Somalia, uno stato con un governo, ma tanti padroni e gruppi armati in guerra perenne uno contro l’altro.
Il paesaggio era stato devastato dalle stragi, anche la natura appariva ferita, debole e sanguinante.
Le condizioni di vita erano nettamente peggiorate, soprattutto, nelle campagne, nei villaggi e l’unica risorsa del paese, la pesca depredata.
I signori della guerra rilasciavano licenze di pesca a giapponesi, europei, canadesi e le grosse barche attrezzate rendevano il mestiere del mare impossibile ai somali: li scacciavano, pian piano, e li confinavano in tratti poco pescosi.
I canti non accompagnavano più i rientri delle barche, non segnalavano più la gioia dell’abbondanza e le grida gioiose delle donne, che affollavano la riva, erano scomparsi. Ormai, vedevi negli occhi di questi esseri lo sconforto, il dubbio e percepivi l’incertezza che avvolgeva i loro gesti.
Secoli di rituali, legati al rientro dal mare, scomparsi e la preoccupazione per il cibo, i corpi, che divenivano sempre più esili, erano il nuovo paesaggio che si affermava.