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Ventimila morti e un esercito di polizia per controllare i nuovi mostri delle “gite fuori porta”? È normale tutto ciò?

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“Ogni storia di vita è una storia di dolore”, diceva Schopenhauer, e sono proprio i tempi che stiamo vivendo. Storie di dolore, di solitudini, di abbracci mancati e di appuntamenti perduti.
Un paese distrutto dall’angoscia dove ogni minuto che scandisce non è mai stato così prezioso, ogni istante sembra un’eternità e l’attesa della libertà è più lunga quanto il tempo del buio.
I notiziari ci dicono che non bisogna mollare, non ora per non rendere vano tutto quello che è stato fatto oggi. Ma nei fatti, precisamente, cosa è stato fatto davvero? Eppure i paradossi diventano certezze perché mentre registriamo ancora un numero altissimo di morti, aumenti di contagi in alcune zone del Nord, dove basta una distrazione, un’omissione per incoscienza, si rischia di formare un focolaio epidemiologico di vaste proporzioni, quasi incontenibile.
La Calabria ad oggi è quella più “fortunata” per quanto riguarda i contagi, ad oggi siamo poco più di novecento, ma allo stesso tempo è una bomba ad orologeria sociale. Una polveriera di tristezza dove oggi, in questi mesi, ha raggiunto il suo picco maggiore.
Come scrisse De Andrè “La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà”, ma qual è la libertà in un mondo dove ancora c’è bisogno di una serrata forma di solidarietà altrimenti ci sono famiglie che muoiono di fame? Qual è la libertà, quando poi di solitudine si rischia di morire e non essere nemmeno visti, figuriamoci ascoltati?
È un tempo buio colmo di incertezze, di sciacallaggi gratuiti e di parvenze occasionali per alimentare il proprio ego. È il tempo della solidarietà ma anche dei mascalzoni seriali. È il tempo in cui la bellezza dell’altruismo viene offuscata dalla tremenda mania del Truman Show.
Siamo sicuri che la responsabilità ci appartiene davvero? Qualche (serio) dubbio sorge come un infinito sommerso che riemerge impetuosamente. Vi siete mai chiesi quanti “aspettano la pioggia per non piangere mai soli”? No, credo proprio di no.
Eppure nonostante tutti questi interrogativi senza risposta, stiamo vivendo una Pasqua e una Pasquetta all’insegna dell’isolamento, necessario, vitale, ma sempre di isolamento si tratta. Si è soli come voci soffuse nel mezzo di un deserto dove la sua aridità a volta alimentata dalla sofferenza, altre volte dall’idiozia di sentirsi eterni, ci spinge a una normalità artificiale.
Osserviamo il paradosso, ad oggi, quando è scoppiata questa pandemia, ci sono ventimila morti, oltre centomila contagiati, si sta distruggendo la storia e la memoria di un paese. Muoiono anche giovai, muoiono medici, sanitari, c’è un sacrificio immenso quanto una guerra civile. Dovrebbe essere normale vivere al riparo, essere uniti, solidali, avere rispetto l’uno con l’altro, e invece no. In questi due giorni di festa tutto ciò che di questi tempi bui dovrebbe essere normalità non lo è. Un’imponente squadra di forze dell’ordine le quali avrebbero altro di meglio da fare e con il loro sacrosanto diritto di trascorrere le festività come tutti, anche chiusi in casa, devono stare in mezzo alla strada in questi due giorni per impedire che degli sciagurati, imbecilli senza scorza né gloria, facciano gli idioti e se ne vanno in giro come se nulla fosse. Come se quei ventimila morti italiani per loro non sono altro che dei numeri, non consci che quel numero potrebbero essere loro. Viviamo in un paese dove la somma delle incoscienze individuali è essa stessa una coscienza collettiva ed egoista.
Questa non è la vita che avremmo voluto vivere, ma potrebbe essere l’inizio di quello che prima ignoravamo, attraverso la solitudine, il disagio, la mancanza di un abbraccio, e che noi chiamiamo non sopravvivenza, ma il valore dell’esistenza.